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Il fallimento della COP 26 su adattamento e giustizia climatica

 

cop 26 giustizia climatica
Credits: UNclimatechange (CC BY-NC-SA 2.0)

di Vittorio Cogliati Dezza

(Rinnovabili.it) – Sono stato facile profeta quando su Rinnovabili.it, dopo le grandi manifestazioni del 5 e 6 novembre, a metà della COP26, scrivevo La giustizia climatica s’è persa tra le strade di Glasgow e preannunciavo: “la giustizia climatica sarà molto probabilmente il grande escluso dall’accordo finale. Così è stato!

Perché tornare oggi sui risultati della COP di Glasgow e perché su questo punto? Per due ragioni e si annidano entrambe in quell’abisso di cui ha parlato il presidente della Cop26, Alok Sharma, di fronte all’Assemblea che ha approvato il Patto per il clima di Glasgow: “rimane un abisso tra gli obiettivi a breve termine e ciò che è necessario per raggiungere l’obiettivo di Parigi. Quel lavoro deve iniziare ora”. 

La prima ragione

Al di là dei punti positivi e di quelli negativi, di cui si è detto più o meno tutto in questi giorni, a Glasgow non si è detto nulla di giustizia climatica, anche se è stato certamente lo slogan che più ha risuonato in quei giorni, nelle strade e nelle stanze della Conferenza. Nel Patto, infatti, non si va oltre una sola striminzita citazione, nella premessa, nella strana forma: “rilevando anche l’importanza per alcuni del concetto di giustizia climatica“, insieme ad un variegato elenco di diritti umani, senza alcun impegno che possa far capire cosa si voglia fare.

L’assenza risulta ancora più preoccupante perché tra i risultati politici significativi della COP26, anche se non esplicitati nelle formule del Patto, ma certamente illuminati dall’accordo tra Cina e Usa per l’istituzione di un Comitato bilaterale per arrivare ai 1,5°C, non a caso annunciato in quella sede, sta il fatto che la questione climatica è stata definitivamente ed inequivocabilmente promossa tra le due o tre grandi emergenze globali del nostro tempo, attraverso cui è necessario guardare alle altre grandi emergenze. E, contestualmente, è stata ratificata la delineazione di una nuova geografia che divide il mondo in due, tra i Paesi che hanno come problema principale gli investimenti nella mitigazione, per sostenere la transizione energetica, ed i Paesi che già oggi subiscono i danni dell’impatto climatico e hanno come urgenza prioritaria quella dell’investimento nell’adattamento. Lungo questa linea di demarcazione tra mitigazione e adattamento, con la differenza di risorse per la mitigazione a discapito dell’adattamento, si sviluppano i rapporti di forza del mondo globalizzato.

In questo contesto in forte evoluzione il concetto di giustizia climatica rimane ancora molto legato al significato con cui emerse, una ventina d’anni fa, nel crogiuolo del World Social Forum di Seattle e Porto Alegre, centrato sulla situazione di sfruttamento e rischio dei Paesi del Sud del mondo. 

Con una paradossale conseguenza. Oggi a pagare le conseguenze della sottovalutazione dell’investimento globale in adattamento non sono solo i Paesi poveri, ma anche i Paesi ricchi, come stanno a dimostrare i disastri climatici, tra incendi ed inondazioni, che hanno recentemente colpito in Europa come in Cina e negli Stati Uniti. È perciò urgente ripensare il concetto di giustizia climatica e andare a verificare cosa può voler dire anche nel mondo più ricco.

Un primo passo riguarda il fatto che il riequilibrio di risorse tra mitigazione e adattamento rappresenta una duplice sfida perché per un verso riguarda un complessivo riequilibrio di poteri nel mondo, e, per un altro, riguarda la messa a terra delle politiche climatiche all’interno dei singoli Paesi dove è necessaria, una nuova attenzione alle categorie socialmente più fragili, non solo perché le più esposte e meno capaci di resilienza, ma anche perché rappresentano la leva su cui fondare la resilienza complessiva del Paese.

È in questo senso che il termine giustizia climatica risulta particolarmente appropriato, perché di giustizia si tratta. Tanto che la via maestra per affrontare questi divari consiste nell’applicare il principio della discriminazione positiva, ovvero il principio in base al quale tutte le misure prese dalle autorità pubbliche dovrebbero avere come fine principale quello di proteggere le persone svantaggiate, le categorie più deboli, allo scopo di realizzare un’uguaglianza di fatto che la semplice uguaglianza di diritto non riesce ad assicurare. Partendo infatti dai bisogni degli ultimi e dei vulnerabili si possono avviare politiche di messa in sicurezza e di resilienza buone per tutti. Ecco perché la giustizia climatica è il cuore della transizione ecologica, e se la transizione ecologica non sarà prima di tutto giusta, non avrà alcuna speranza di successo.

Nel Patto la totale mancanza di attenzione a investire soprattutto verso chi, nei paesi poveri e nei paesi ricchi, già oggi è più esposto agli effetti della crisi climatica (fatta eccezione per un riferimento alla «giusta transizione», citata a proposito della riconversione dei lavoratori del settore fossile), ci fa capire che l’attenzione è rivolta soprattutto alle tecnologie della decarbonizzazione, con una grave sottovalutazione di quanto le fragilità sociali, provocate dalle disuguaglianze, che segnano la nostra epoca nei paesi poveri e nei paesi ricchi, possano pesare nella lotta ai cambiamenti climatici.

Da qui la seconda ragione

Dal cambiamento del punto di vista a cui si devono ispirare le politiche climatiche dipendono scelte strategiche, coerenza delle politiche pubbliche e priorità nel breve e nel medio periodo. La tecnologia da sola non basta. Le scelte tecnologiche vanno intrecciate e riviste alla luce della coerenza di politiche sociali, ambientali, culturali e scientifiche, perché riguardano tutta l’organizzazione della società, su cui pesano le disuguaglianze.

Ed ora il testimone passa alle scelte politiche dei diversi Paesi. Compresa l’Europa e l’Italia. E qui scoppiano subito le prime contraddizioni. Si continuano a curare gli interessi dei grandi player dell’energia, come dimostra il tentativo in atto di inserire nella revisione della Tassonomia europea anche il metano ed il nucleare come investimenti “sostenibili”, o, nel nostro orticello, il via libera dato dal Governo italiano, svelato una decina di giorni fa, a garantire attraverso la Sace il finanziamento del progetto di estrazione di gas e petrolio in Artico, nonostante la sottoscrizione a Glasgow dell’impegno con altri 20 Paesi a non fornire più sussidi pubblici per costruire all’estero impianti per estrarre o bruciare gas, petrolio e carbone. Se poi andiamo a vedere il principale volano della ripresa economica, il PNRR, nei piani di investimento c’è molto poco su adattamento (sostanzialmente limitato alla Missione 2, Componente 4, più qualcosa nella Missione 5 per la rigenerazione urbana) e molte ambiguità su metano ed idrogeno, per non parlare della legge di bilancio in discussione che apre risorse per i progetti di CCS dell’Eni.

Tutto ciò mentre a Glasgow usciva un’anticipazione del Rapporto annuale dell’IPCC, che sarà pubblicato ad inizio 2022, secondo il quale si spenderanno da qui al 2050 1.000 miliardi di dollari l’anno per l’adattamento climatico (e visto quanto successo quest’estate in Germania o recentemente in Sicilia, sembrano anche pochi!!), e si conferma che gli investimenti di risorse pubbliche potranno mobilitare un volume di risorse private molto più rilevante. E la Global Commission on Adaptation, in un suo rapporto del 2019, già rilevava che investire 1.800 miliardi di dollari a livello globale dal 2020 al 2030 potrebbe generare 7.100 miliardi di dollari in benefici netti totali, con un “triplo dividendo”: eviterebbe perdite future, stimolerebbe l’innovazione e offrirebbe benefici sociali e ambientali. 

L’adattamento è il fronte prioritario su cui si misura la giustizia climatica e la possibilità di successo globale delle politiche nazionali e internazionali per contrastare la crisi climatica. La giustizia climatica è parte della soluzione.

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