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Climate Ambition Summit, al via l’incontro che può salvare l’accordo di Parigi

A 5 anni dal patto sul clima l’Onu prova a iniettare nuova linfa nell’azione climatica globale. Traducendo in termini concreti le promesse di neutralità climatica

Climate Ambition Summit
credits: ONU

Anche l’Italia tra i paesi organizzatori del Climate Ambition Summit

(Rinnovabili.it) – Una tappa cruciale sulla via della COP26. Così l’Onu presenta il Climate Ambition Summit che si apre domani, 12 dicembre, per tenere alta l’attenzione sul riscaldamento globale e sulla necessità di politiche climatiche più ambiziose. L’appuntamento, organizzato da Gran Bretagna e Francia insieme a Cile, Italia e le stesse Nazioni Unite, guarda contemporaneamente al passato e al futuro. Al passato, perché cade esattamente a 5 anni dalla firma dell’accordo di Parigi sul clima. E al futuro, perché è un incontro studiato per tirare la volata alla prossima COP di Glasgow, rinviata a novembre 2021 causa Covid. Obiettivo: evitare che il 2020 sia un anno perso per l’azione climatica globale, sfruttare la lezione e le opportunità dischiuse dalla pandemia, e alzare l’asticella dell’ambizione climatica.

Cosa succederà al Climate Ambition Summit

Cosa ci dobbiamo aspettare da questo nuovo incontro globale sul clima? Due cose, essenzialmente. Un resoconto della strada percorsa dal 2015 a oggi, che ne metta in luce i lati positivi e quelli negativi. E nuovi obiettivi sul clima, concreti e dettagliati. Se il summit riuscirà a catalizzare l’azione climatica, la COP26 può sperare di bissare il successo di 5 anni fa nella capitale francese. Altrimenti, la strada sarà tutta in salita.

Gli organizzatori stanno cercando di evitare che il Climate Ambition Summit si trasformi in una semplice passerella per leader politici in cerca di visibilità. Non solo non tutti potranno prendere la parola. Ma per guadagnarsi la possibilità di salire sul podio e parlare bisogna dimostrare che non si intende tenere un discorso generico: servono annunci precisi che spieghino quali sono i nuovi obiettivi climatici nazionali e come si intende raggiungerli. La priorità sarà data, in teoria, a quei capi di Stato e di governo che presentano gli obiettivi più ambiziosi. L’Italia se la caverà comunque: in qualità di Stato co-organizzatore ha un posto già riservato, Conte parlerà il 12 dicembre.

Quanto questo escamotage sarà un successo, lo si potrà giudicare a posteriori. Vale però la pena ricordare che questo appuntamento era stato previsto già dall’accordo di Parigi. Nel 2015 si era fissato il termine di 5 anni dopo i quali ogni Stato contraente avrebbe dovuto aggiornare i propri NDC. La sigla sta per Nationally Determined Contribution e indica il contributo che ciascun paese decide volontariamente di dare nel contrasto al cambiamento climatico. Gli NDC tipicamente contengono gli obiettivi nazionali di riduzione delle emissioni a breve termine (2030) e possono indicare anche target più di lungo periodo. Vi rientrano, ad esempio, i piani per raggiungere la neutralità climatica, ma anche i contributi alla finanza climatica per azioni di adattamento e mitigazione.

Peccato che questa scadenza sia stata ‘bucata’ dalla stragrande maggioranza dei paesi. Ad oggi, secondo l’iniziativa di monitoraggio 2020 NDC Tracker, solo 20 paesi hanno depositato i loro NDC aggiornati. Il gruppo rappresenta appena il 7,6% delle emissioni globali. Tra questi i big sono Giappone, Brasile e Norvegia. Sono però 126 i paesi che hanno dichiarato l’intenzione di aggiornare i propri obiettivi climatici. Inclusa la Cina – il presidente Xi a settembre ha promesso la neutralità climatica entro il 2060 e il picco di emissioni entro il 2030 – così come l’Unione europea. Bruxelles attraverso il Green Deal punta a diventare carbon neutral prima di metà secolo e a ridurre le emissioni almeno del 55% entro il 2030 (ma questo punto è in discussione al Consiglio europeo in corso).

Per centrare gli obiettivi di Parigi, quindi, è necessario che nei prossimi mesi un numero congruo di paesi presenti NDC aggiornati che invertano la tendenza attuale. Infatti, nonostante il patto del 2015, le emissioni continuano a crescere. Secondo l’Emission Gap Report 2020, l’anno scorso è stato record assoluto, quasi 60 Gt a livello globale. Trend che non sono compatibili con gli obiettivi attuali al 2030, né con quelli stabiliti a Parigi. Alla fine del decennio, per rispettare il patto sul clima, le emissioni dovranno essere almeno 15 Gt in meno di oggi per essere in linea con la soglia di +2°C, e 32 Gt in meno per quella di +1,5°C. Ma gli obiettivi nazionali fissati finora sono troppo poco ambiziosi: permettono ancora dalle 3 alle 5 Gt di CO2e di troppo.

I nodi più critici

La possibilità che al Climate Ambition Summit gli Stati siano generosi con le promesse ma avari di dettagli e piani concreti è molto alta. Uno dei  potenziali problemi è l’uso della neutralità climatica come ‘passepartout’: un annuncio a effetto che se non è riempito di politiche sostanziali equivale soltanto ad un esercizio di green washing.

Basta pensare al caso del Brasile. Il paese sudamericano è tra i 20 che hanno ‘aggiornato’ gli NDC, in realtà ripresentando quelli vecchi senza alzare nessuno degli obiettivi. E il presidente Bolsonaro ha appena promesso che raggiungerà la neutralità climatica nel 2060, ma questa data vale solo “indicativamente”. Annuncio che non è accompagnato da nessun piano né roadmap specifica. In questo senso, anche la promessa della Cina ha ancora contorni imprecisi. Al summit di Copenhagen del 2009, Pechino non si era impegnata a tagliare le emissioni bensì l’intensità di carbonio per unità di Pil. E sulla neutralità climatica cinese restano delle ambiguità, a partire dall’oggetto del taglio delle emissioni: solo la CO2 o, nel solco dell’esempio europeo, il più ampio gruppi di gas serra. Un chiarimento su questo punto dovrà arrivare al più tardi nella primavera del 2021, quando la Cina renderà pubblico il suo nuovo piano quinquennale che conterrà le specifiche della politica climatica fino al 2025.

E qui emerge un secondo punto critico del Climate Ambition Summit. Gli annunci a lungo termine sono politicamente semplici da fare, perché non richiedono di fare sacrifici nell’immediato. Al contrario degli impegni a breve-medio termine, che si scontrano con la necessità di mantenere consenso e vincere le elezioni. Il rischio è che l’appuntamento, così come la COP26, non delinei in modo netto la strada da percorrere da qui fino al 2030.

Invece, come ricorda l’Onu, questo decennio sarà cruciale per centrare gli obiettivi di Parigi. Con le politiche attuali, supereremo la soglia di 1,5°C decisa a Parigi già nei prossimi anni, probabilmente nel 2024 o nel 2026. E la soglia dei 2°C non molti anni dopo. Nel complesso, calcola un rapporto Unep appena pubblicato, il mondo è sulla strada per riscaldarsi di 3,2°C entro il 2100 rispetto ai livelli pre-industriali. E il 2020, nonostante il crollo delle emissioni (-7%) causato dalla pandemia, ha buone probabilità di diventare il secondo anno più caldo della storia, arrivando a livello 1,2°C di riscaldamento globale.