di Isabella Ceccarini
(Rinnovabili.it) – In 48 ore è caduta su Catania la pioggia di un anno intero. Una sciagura documentata da foto sconvolgenti con la città allagata e la campagna sommersa dall’acqua. Nell’estate appena trascorsa le temperature hanno sfiorato i 50 gradi, creando notevoli danni all’agricoltura. I cambiamenti climatici hanno segnato un altro punto, semmai ce ne fosse stato bisogno. Eppure, anche a fronte di uno scenario globale seriamente preoccupante, nell’imminenza della COP26 c’è già chi sta facendo passi indietro.
Il futuro del Pianeta è il nostro futuro
La COP 26 – la Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici del 2021, che quest’anno sarà presieduta dal Regno Unito e inizierà a Glasgow il 31 ottobre – non è un vertice internazionale come tanti altri, ha un carattere di urgenza perché si deve decidere quale futuro vogliamo per il Pianeta e quindi per noi.
Rispetto alla COP 21 (ovvero Conferenza delle Parti, il numero indica quello del vertice annuale) del 2015 a Parigi molte cose sono cambiate, a cominciare dal clima. A Parigi tutti i Paesi presenti si impegnarono a limitare l’aumento della temperatura globale al di sotto dei 2° entro il 2020: l’obiettivo ragionevolmente raggiungibile si era attestato a 1,5°. Ogni anno, inoltre, doveva essere presentato un piano che indicava lo “stato dell’arte”.
L’ultimo Rapporto dell’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change) non è stato affatto confortante. Per contenere la temperatura entro 1,5° e quindi rispettare l’Accordo di Parigi, dobbiamo ridurre le emissioni di anidride carbonica del 45% entro il 2030 rispetto ai livelli del 2010 e raggiungere le emissioni nette pari a zero entro il 2050. In più, dobbiamo conservare e ripristinare la biodiversità e ridurre al minimo l’inquinamento e i rifiuti.
Gli effetti dell’aumento della temperatura
Se permane lo scenario attuale, la temperatura media terrestre si avvia a +2,7° nel 2100. Cosa vuol dire in concreto? Aumento esponenziale di ondate di calore, incendi e siccità, inondazioni e cicloni tropicali; quello che calerà pericolosamente sarà invece la produzione agricola perché l’agricoltura è il settore che sembra subire più di altri l’effetto dei cambiamenti climatici.
Ciliegina su questa torta avvelenata sarà lo scioglimento dei ghiacci in Antartide con il conseguente innalzamento del livello dei mari: otto delle più grandi città del mondo sono costiere e quindi ad altissimo rischio. Uno studio pubblicato su “Science” rileva che i giorni in cui la temperatura ha superato i 50° sono raddoppiati negli ultimi trent’anni, e gli ultimi dieci anni sono stati i più caldi di sempre.
I cambiamenti climatici andranno a incidere sulla produttività agricola e forestale, quindi ci sarà minore disponibilità di cibo. Va detto però che l’agricoltura può contribuire alla soluzione dei problemi in vari modi: riducendo le emissioni di anidride carbonica, aumentando la capacità di stoccare carbonio nei sistemi agricoli e forestali, sviluppando maggiormente le agroenergie (ovvero la potenzialità energetica che si può ricavare dai processi agroforestali, come biomasse e biocarburanti), riforestando con alberi autoctoni, ripristinando i terreni degradati, gestendo meglio il suolo e incrementando l’agroforestazione (cioè la combinazione di alberi e/o arbusti con la coltura agraria o l’attività zootecnica).
È importante rilevare, come ha fatto il presidente di Confagricoltura Massimiliano Giansanti, che «attraverso la fotosintesi le foreste da sole assorbono ogni anno 40 milioni di tonnellate di CO2, vale a dire il 10% delle emissioni complessive di gas ad effetto serra».
Soluzioni che hanno bisogno di tecnologia e innovazione, come nel caso delle energie rinnovabili. Giansanti ha sottolineato che «in dieci anni il costo dell’energia da fotovoltaico si è ridotto del 50%, senza dimenticare l’ulteriore contributo che biogas e biometano sono in grado di assicurare al processo di decarbonizzazione. Con più rinnovabili, oggi il costo delle bollette sarebbe inferiore».
Tuttavia rimane fondamentale ridurre i tempi di autorizzazione degli impianti: oggi ci vogliono anni, e nel frattempo le tecnologie diventano obsolete.
I cambiamenti climatici non guardano allo schieramento politico
Da qui al 2030 trascorreranno anni cruciali, e gli impegni fin qui adottati sembrano essere lontanissimi dall’obiettivo di limitare il riscaldamento globale. È realistico l’obiettivo di rimanere entro 1,5°? Purtroppo sembra proprio di no, perché alcuni dei Paesi più inquinatori hanno già manifestato l’intenzione di posticipare la scadenza di dieci anni.
Una cosa andrebbe messa bene in chiaro: i ragionamenti e le scelte che hanno a che fare con i cambiamenti climatici non devono essere legati alla ricerca di un facile consenso politico. I cambiamenti climatici, infatti, non guardano in faccia nessuno.
Quello che i governi devono riuscire a spiegare è che se non si fanno scelte nette oggi, un domani potremmo anche non averlo. Non dobbiamo riferirci a ipotetiche generazioni future pensando “che mi importa, tanto io non ci sarò”, siamo già tutti coinvolti in gioco complesso che, alle condizioni attuali, siamo destinati a perdere.
Spesso abbiamo sentito dire che la transizione energetica non sarà un pranzo di gala, ovvero che i suoi costi saranno ingenti. Ma i cambiamenti climatici stanno forse apparecchiando una tavola migliore? I costi dei cambiamenti climatici sono enormi e non solo in termini economici, ma anche ambientali, sociali e soprattutto in termini di vite umane. Non sarebbe preferibile spendere questi miliardi per investire in prevenzione anziché per riparare i danni?
L’agricoltura è particolarmente colpita
Prendiamo ancora una volta ad esempio il caso dell’agricoltura. L’eccezionalità degli eventi atmosferici è ormai la norma in Italia. I cambiamenti climatici hanno portato grandine di grosse dimensioni, piogge torrenziali, sfasamenti stagionali, invasioni di parassiti e nuove patologie vegetali. Le perdite stimate per quest’anno, secondo Coldiretti, hanno superato i due miliardi di euro tra perdite della produzione agricola e danni alle strutture e alle infrastrutture nelle campagne.
Le assicurazioni hanno già iniziato a far pagare alle aziende agricole premi più alti in funzione dell’aumentato rischio climatico: se prima capitava ogni tanto di chiedere un risarcimento per il danno subito, ora il copione si ripete ogni anno.
Nella Piana di Catania sono crollati alcuni terrazzamenti agrumicoli, si sono verificate frane, carciofeti e agrumeti sono allagati e si è interrotta la raccolta delle olive. Le precipitazioni violente e di breve intensità, aumentate a causa dei cambiamenti climatici, non permettono all’acqua di defluire attraverso i canali predisposti. È un territorio fragile quello siciliano, obietterà qualcuno, ma non possiamo forse dire altrettanto per molte altre aree della Penisola?
Come ha dichiarato il presidente di Confagricoltura Sicilia, Ettore Pottino, «il punto dolente è sempre lo stesso, ovvero la fragilità dei collegamenti delle aree interne con il conseguente isolamento di interi territori ad alta vocazione agricola. Il cambiamento climatico è una realtà che ci deve far seriamente riflettere sulla necessità di introdurre nuove disposizioni normative a tutela delle produzioni agricole magari utilizzando uno strumento più celere come la Protezione Civile che, nel caso dei recenti incendi che hanno devastato gli allevamenti dell’isola, è riuscita a dare in tempi relativamente brevi le risorse per riprendere immediatamente le attività».
L’investimento in tecnologia e innovazione va sostenuto
L’Europa ha un obiettivo ambizioso, quello di diventare il primo Continente a impatto climatico zero entro il 2050: nel raggiungimento di questo obiettivo l’agricoltura e l’industria alimentare hanno un ruolo di primo piano, ma gli operatori della filiera agroalimentare hanno bisogno di sostegni sia europei che nazionali per investire in tecnologia e innovazione, elementi cruciali della transizione verde.
Un discorso a parte va fatto per la produzione agricola dell’Italia, che è sul podio europeo per quanto riguarda la riduzione delle emissioni, del consumo idrico e del ricorso alla chimica; l’industria alimentare ha fatto la sua parte riducendo fortemente i consumi di energia e di acqua e i materiali di imballaggio.
Anche per quanto riguarda recupero e riciclo dei materiali siamo un esempio da imitare (anche se pochi lo sanno, e immaginano sempre l’Italia come fanalino di coda).
Effetti a catena
Se in Italia l’allarme è alto, come abbiamo visto, nel resto del mondo le cose vanno peggio e possono generare un effetto a catena globale. Un Rapporto pubblicato dall’IFAD (International Fund for Agricultural Development) stima che, se le temperature continueranno a salire a causa del cambiamento climatico, in otto Paesi africani i raccolti di prodotti alimentari essenziali in alcune aree potrebbero diminuire fino all’80% entro il 2050. È facile comprendere l’impatto catastrofico sulla povertà e sulla disponibilità di cibo.
L’effetto dei cambiamenti climatici è globale, ma i più vulnerabili sono i piccoli agricoltori dei paesi in via di sviluppo perché non sono attrezzati per fronteggiare queste difficoltà. Ricordiamo che a loro si deve la produzione di più di un terzo degli alimenti consumati nel mondo (in alcune aree di Asia e Africa fino all’80%), ma ricevono meno del 2% dei fondi investiti nel mondo per contrastare i cambiamenti climatici.
I mancati investimenti avranno ricadute sui mercati globali: se diminuiscono i raccolti aumentano i prezzi degli alimenti, e la minore disponibilità di cibo comporta l’aumento di fame e povertà. Nel grande scenario, questi elementi spingono alle migrazioni e incrementano conflitti e instabilità. Come affermano gli studi dell’IFAD, nel 2020 una persona su dieci nel mondo soffriva la fame, in Africa la proporzione saliva a una su cinque.
È imperativo destinare finanziamenti per favorire l’adattamento al cambiamento climatico: ad esempio variare e diversificare le coltivazioni, migliorare l’accesso all’irrigazione, adottare tecniche di semina differenti. La COP 26 deve anche essere l’occasione per fare il punto della situazione: non solo limitare l’aumento delle temperature, ma anche aiutare gli agricoltori a diventare resilienti agli effetti dei cambiamenti climatici.
Adattamento e mitigazione
Sei anni fa i paesi più ricchi avevano promesso – ma nella realtà non è avvenuto – di mobilitare 100 miliardi di dollari l’anno entro il 2020 per finanziare l’adattamento al cambiamento climatico nei paesi meno avanzati. La cifra è insufficiente: i costi di adattamento al cambiamento climatico raggiungeranno nei soli paesi in via di sviluppo una cifra compresa tra 140 e 300 miliardi di dollari l’anno entro il 2030. Inoltre il contrasto al cambiamento climatico si concentra soprattutto sulla mitigazione del riscaldamento globale: per 18 dollari spesi in mitigazione, ne viene speso solo 1 per l’adattamento al cambiamento climatico.
Qual è la differenza tra adattamento e mitigazione? L’adattamento dovrebbe anticipare gli effetti dei cambiamenti climatici e favorire l’adozione di misure di prevenzione o riduzione dei danni (ad esempio, ridurre gli sprechi o costruire barriere per proteggere dall’innalzamento del livello del mare).
La mitigazione dovrebbe rendere meno grave l’impatto dei cambiamenti climatici prevenendo o diminuendo l’emissione di gas a effetto serra (ad esempio, incrementare le energie rinnovabili o incoraggiare un sistema di mobilità meno inquinante).
Quindi, se l’adattamento è un adeguamento agli effetti dei cambiamenti climatici, la mitigazione è un intervento umano per ridurre le emissioni nocive. In sostanza, dall’integrazione di adattamento e mitigazione può venire la risposta ai cambiamenti climatici.
Da Greta Thunberg alla Regina Elisabetta, quello del cambiamento climatico è un tema trasversale che supera i confini geografici e riguarda tutti. Non possiamo che augurarci che dalla COP26 escano impegni realmente stringenti ed efficaci, ma soprattutto che la politica superi la miope visione dell’oggi per indossare le lenti del domani.