Molti bias cognitivi distorcono o congelano la nostra capacità di considerare in modo neutro la crisi climatica
(Rinnovabili.it) – Tutti noi dobbiamo superare delle barriere cognitive notevoli per comprendere che cosa sia il cambiamento climatico e intuire quali possono essere le sue conseguenze per la nostra vita e quella di chi verrà dopo di noi. Non è una questione di intelligenza o di attitudine: si tratta di ostacoli “connaturati” alla nostra mente. Quello tra bias cognitivi e crisi climatica è un legame che deriva dalla nostra stessa storia evolutiva come specie.
Questo bagaglio ce lo portiamo dietro perché, finora, ci è stato molto utile per sopravvivere. Ad esempio, è indispensabile per prendere decisioni rapidamente, cioè il tipo di decisioni esistenziali a cui ci siamo trovati di fronte per decine di migliaia di anni: scappa o combatti. Oggi, però, viviamo in un ambiente completamente diverso, in modi completamente diversi, e in un mondo con un grado di complessità maggiore di quello nel quale questi bias si sono formati. E alcune minacce esistenziali sono cambiate. Tra queste, la crisi climatica.
Quali sono e come funzionano i bias cognitivi che ci rendono difficile avere contezza del climate change?
Il legame tra bias cognitivi e crisi climatica
Alcuni di questi pregiudizi cognitivi ci fanno sembrare il climate change qualcosa di astratto, altri qualcosa di lontano che non ci riguarda direttamente. Altri ancora ne sfumano i contorni e lo fanno sembrare un pericolo vago, indefinito. Contro il quale non c’è urgenza di agire. Vediamo quali sono i principali bias cognitivi coinvolti nella nostra esperienza del cambiamento climatico.
Bias di conferma
Più del 99% degli scienziati concorda sul fatto che la crisi climatica sia dovuta all’attività dell’uomo ed esistono sempre più studi scientifici che confermano che il climate change è reale e sta cambiando le nostre vite. Ciò nonostante, non è detto che sia semplice accettare queste informazioni. Siamo naturalmente portati a prestare orecchio alle informazioni che confermano ciò che già pensiamo e a scartare quelle che contraddicono le nostre convinzioni. È il cosiddetto bias di conferma. Tradotto: la sola comunicazione oggettiva, precisa e razionale sul climate change non potrà mai convincere tutti.
Bias del presente
Tra un uovo oggi e una gallina domani, il nostro cervello è programmato per scegliere l’uovo. Tendiamo cioè a dare più peso a un guadagno immediato e a sottostimare i benefici che potrebbero invece arrivare solo più in là nel tempo. Una conseguenza importante del bias del presente è che notiamo i costi attuali delle misure contro la crisi climatica ben più facilmente dei vantaggi che ne deriveranno in futuro. Grazie a questo bias, ad esempio, è molto facile per alcuni politici far passare l’idea che la diffusione delle auto elettriche sia una “guerra ai poveri” (qui e ora) invece che una misura per mitigare la crisi climatica (con effetti visibili nei prossimi decenni).
Euristica della disponibilità
Il legame tra bias cognitivi e crisi climatica è profondamente connesso all’esperienza personale e alla sfera emotiva. L’euristica della disponibilità lo mostra in modo chiaro. Questa euristica (modo in cui prendiamo decisioni e formuliamo giudizi) ci porta a preferire nettamente ciò che è vicino nel tempo (memoria) e nello spazio. Il ragionamento è questo: se mi torna in mente facilmente, dev’essere perché è davvero importante; se faccio fatica a inquadrarlo allora non doveva essere così fondamentale. Di conseguenza, una minaccia davanti a me ora necessita sicuramente di una risposta, mentre un pericolo che si potrà materializzare domani lo percepiamo come meno serio e urgente. Il climate change lavora su tempi lunghi, anche più lunghi di una vita umana media, ed è quindi facile che venga etichettato come problema “non urgente” o “non serio”.
Bias dell’ottimismo
Oltre che procrastinatori seriali, noi Sapiens siamo anche inguaribili ottimisti. Tendiamo a sovrastimare la probabilità che si verifichino eventi che giudichiamo positivi per noi, e a sottostimare la probabilità che avvengano fatti spiacevoli o catastrofi. Il pregiudizio resta all’opera anche quando la nostra mente, razionalmente, ci dice che le cose stanno andando male. È anche così che stiamo sleepwalking into the catastrophe, per riprendere il titolo di un articolo scientifico del 2017 in cui gli autori discutono alcuni dei bias che rallentano l’azione contro il cambiamento climatico.
Pregiudizio di prossimità
Siamo inconsapevolmente portati a favorire chi ci sta vicino a discapito di chi è più lontano. La stessa distorsione del giudizio è in gioco quando si tratta di cambiamento climatico. Detta banalmente, 5 anni di siccità estrema dall’altra parte del mondo non hanno lo stesso effetto su di noi di una bomba d’acqua che ci ha allagato casa in 30 minuti. L’aver avuto esperienza diretta (spesso traumatica) dell’impatto della crisi climatica, ad esempio a causa di un evento estremo, rende molto più semplice accettarne l’esistenza e la necessità di agire per mitigare e adattarsi al climate change. Viceversa, per la maggior parte di noi le notizie di bombe d’acqua, inondazioni, mega-incendi, siccità prolungate, ondate di calore perduranti e intense, non contribuiscono davvero a farci sentire l’urgenza di rispondere al climate change se si tratta di eventi lontani.
Bias di normalità
Tendiamo a ritenere che le cose in futuro continueranno a funzionare come hanno sempre funzionato in passato. E che se anche le catastrofi avvengono, perché avvengono, in realtà non ci riguarderanno personalmente. È un meccanismo di difesa che ci consente di vivere senza essere sopraffatti dai dubbi e dalle paure, e quindi ci consente di prendere decisioni a mente sgombra. Ma ci rende difficile considerare in modo appropriato fenomeni della portata del climate change.