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Che cos’è l’alcalinizzazione artificiale degli oceani, la geoingegneria che sfrutta il mare

Per alcalinizzazione artificiale degli oceani si intende una forma di geoingegneria che utilizza dei normali processi naturali di deterioramento delle rocce, la degradazione meteorica, per stoccare più anidride carbonica negli oceani

Alcalinizzazione artificiale degli oceani: la geoingegneria applicata al mare
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Potenziale e dubbi sull’enhanced rock weathering

(Rinnovabili.it) – Secondo il rapporto The state of carbon dioxide removal curato dall’università di Oxford, praticamente tutti gli scenari emissivi che limitano il riscaldamento globale sotto i 2°C previsti dall’ultimo rapporto dell’Ipcc richiedono l’uso massiccio di nuove tecniche di rimozione del carbonio (nuove CDR). Quelli che non ne prevedono l’uso richiedono dei tagli molto consistenti e immediati dei gas serra che appaiono quanto mai inverosimili. Tra le nuove CDR citate ce ne sono alcune più note e già sperimentate, come la cattura diretta dall’aria o il biochar, e altre meno conosciute come l’alcalinizzazione artificiale degli oceani (enhanced rock weathering). Di che cosa si tratta?

Cos’è l’alcalinizzazione artificiale degli oceani?

Per alcalinizzazione artificiale degli oceani si intende una forma di geoingegneria che utilizza dei normali processi naturali di deterioramento delle rocce, la degradazione meteorica, per stoccare più anidride carbonica negli oceani.

Le piogge e i corsi d’acqua dolce, scorrendo verso il mare, erodono le rocce che incontrano e si arricchiscono di minerali. La stessa cosa avviene tramite l’erosione costiera. Quest’acqua, per la sua composizione chimica, rende più alcalina l’acqua degli oceani. A sua volta, una massa oceanica meno acida riesce a intrappolare una quantità maggiore di CO2 (acidificandosi). L’alcalinizzazione artificiale degli oceani non fa altro che replicare questo processo naturale potenziandolo, cioè aumentando la quantità di sostanze alcaline nei mari.

Per mare e per terra

Come avviene la “spinta” artificiale al degrado meteorico? Le tecniche testate o ipotizzate finora sono diverse. Si va dall’immissione in mare di grandi quantità di silicati o rocce carbonatiche all’uso di olivina, un silicato su cui sta lavorando il progetto Vesta, che prevede di frantumare il minerale in granelli di dimensioni pari a quelle della sabbia, spargerli sulle spiagge e lasciarlo così entrare in mare attraverso maree e moto ondoso.

Un’altra soluzione, invece, guarda all’agricoltura invece che al mare e consiste nella polverizzazione di basalti e nel loro spargimento su aree agricole. Quest’ultimo approccio è quello seguito, ad esempio, dall’esperimento CO2RE dello UK Centre for Ecology & Hydrology: frantumare le rocce permette di aumentare la superficie esposta alla normale reazione chimica che la lega al carbonio, mentre la dispersione su terreni agricoli permette l’immissione nel ciclo dell’acqua. Secondo gli autori dell’esperimento, che si concluderà nel 2024, l’enhanced rock weathering permette di stoccare CO2 in modo sicuro negli oceani per 100.000 anni, mentre la porzione minoritaria di anidride carbonica che resterebbe stoccata nel suolo avrebbe un orizzonte di almeno 10.000 anni.

Il potenziale dell’enhanced rock weathering

Quale sia esattamente l’impatto dell’alcalinizzazione artificiale degli oceani resta ancora da stabilire con precisione. Secondo alcune stime, però, il potenziale benefico sarebbe enorme. Il processo naturale, ogni anno, cattura circa 1 Gt CO2. Se si ipotizza di usare su scala globale questa tecnica di geoingegneria, si potrebbero togliere dall’atmosfera anche 100 Gt CO2. Per avere un paramento di riferimento, oggi le emissioni globali si attestano “appena” intorno alle 35-40 Gt CO2.

Restano tuttavia moltissimi dubbi. Prima di tutto riguardo la fattibilità di un’operazione del genere. Anche se sembra conveniente dal punto di vista climatico, bisogna considerare l’impatto su clima e ambiente di una attività di estrazione di rocce carbonatiche su così vasta scala. Poi ci sono dubbi riguardo l’impatto sulla vita marina: dalla possibile creazione di “zone morte”, cioè aree dove la modifica del ph dell’acqua la rende inadatta per le specie che la popolano, agli effetti diffusi nell’ecosistema marino a partire da quelli sul plankton.