Una ricerca dell'Università di Plymouth ha testato i tassi di degradabilità delle alternative eco friendly ai tradizionali sacchetti di plastica.
Nessuna delle buste biodegradabili testate è scomparsa nell’ambiente dopo 3 anni di esposizione
(Rinnovabili.it) – Le buste biodegradabili si dissolvono autonomamente nel terreno, in mare o semplicemente all’aria aperta? Un team di ricercatori dell’Università di Plymouth, in Inghilterra, ha provato a rispondere a questa (non scontata) domanda scoprendo che, dopo 3 anni di esposizione agli agenti atmosferici, le cosiddette alternative ecocompatibili alle buste di plastica sono ancora intatte e capaci di trasportare un carico di spesa.
Si tratta del primo test a lungo termine su simili prodotti: gli studiosi inglesi hanno verificato i gradi di deperimento di due diversi tipi di buste oxo-biodegradabili, una compostabile, una biodegradabile e una busta di plastica convenzionale (ad alta densità di polietilene) esposte per tre anni all’effetto di mare, terra e aria. Il risultato sorprendente è stato che nessuno dei prodotti testati si è dissolto completamente nell’ambiente; anzi diverse tipologie di buste hanno conservato integrità tale da risultare ancora utilizzabili.
Nello specifico, sia le buste biodegradabili immerse nell’acqua marina che quelle sepolte sotto terra sono risultate ancora capaci di trasportare materiali dopo 36 mesi. Quelle compostabili sono risultate ancora integre dopo essere state interrate per 27 mesi, ma non hanno retto al test di carico, mentre immerse in acqua marina si sono dissolte nel giro di 3 mesi (anche se i ricercatori sostengono la necessità di ulteriori studi per capire in quali dimensioni si siano smembrate). Tutte le buste testate, infine, si sono spezzettate in piccoli frammenti dopo 9 mesi di esposizione all’aria aperta.
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“Abbiamo bisogno di standard internazionali più chiari riguardo quello che definiamo come biodegradabile – ha spiegato il professor Richard Thompson, tra gli autori dello studio pubblicato sulla rivista specializzata Environmental Science and Technology e direttore presso l’International Marine Research Unit della Plymouth University – Intendiamo biodegradabile all’interno di uno stabilimento industriale che tratti i materiali a 50-60°C, con specifici livelli di pH, umidità e ossigeno? O intendiamo qualcosa di esposto semplicemente all’azione del mare, della terra o di un fiume?”.
Secondo le stime degli studiosi inglesi, nella sola Unione europea vengono immesse ogni dal 2010 circa 100 miliardi di nuove buste in plastica. Molti di questi prodotti vengono commercializzati come capaci di essere riciclati in natura più rapidamente della normale plastica o di essere alternative a base vegetale, ma la ricerca britannica sembra smentire tali affermazioni: “Abbiamo dimostrato che i materiali testati non presentano nessun vantaggio consistente, rilevante e affidabile nel contesto dell’inquinamento marino – ha concluso il professor Thompson – Preoccupa, invece, che questi nuovi materiali possano rappresentare una ulteriore sfida nel processo di riciclo. La nostra ricerca evidenzia la necessità di standard riguardo i materiali degradabili che esplicitino chiaramente i percorsi di smaltimento appropriati e i tassi di degrado prevedibili”.
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