Da Kyoto a Rio, dalle centrali a olio combustibile agli attacchi alle rinnovabili: a ripercorrere alcune delle tappe della cronaca recente è G.B. Zorzoli
Un protocollo internazionale deludente, una strategia energetica italiana alla pari di un “araba felice”, attese disilluse, decisioni poco sensate. Il Presidente di ISES ITALIA, G.B. Zorzoli, spara a zero nel ripercorrere il variegato corso degli eventi mondiali e nazionali che hanno caratterizzato, più nel male che nel bene, quest’ultimo periodo storico. Dal globale al locale, la crisi si sente un po’ dappertutto e porta all’evidenza alcune di quelle problematiche che prima al cittadino comune sfuggivano, come la sicurezza energetica o i cambiamenti climatici.
Zorzoli non è affatto ottimista su quello che sta accadendo.
Sul piano nazionale, è bastata una tempesta glaciale per mettere in ginocchio l’intero Paese. La necessaria apertura delle centrali a olio combustibile è stata il risultato di scelte poco lungimiranti che hanno preferito approvvigionamenti energetici non sicuri e troppo dipendenti dall’estero. Una decisione che però, a quanto pare, rappresentava l’unica opzione percorribile in una situazione di emergenza. E che fine hanno fatto le rinnovabili? Nessuno ha pensato a loro come a una soluzione conveniente, anzi è ormai da mesi che si registrano non pochi attacchi al loro sviluppo.
Sul piano internazionale stessa musica. L’aria nuova che si respirò a Rio vent’anni fa oggi sa di stantio e non regala prospettive incoraggianti. La crisi che l’intero pianeta sta vivendo è conseguenza di quello che è stato, alibi per ciò che sarà o non sarà fatto e motivo per mischiare le carte in tavola.
Con Zorzoli ripercorriamo alcune delle vicende di questo periodo storico e lo facciamo in un giorno un po’ particolare: il compleanno di Kyoto.
Professore, cosa è cambiato da quando è stato sottoscritto il Protocollo a oggi?
Ben poco. Kyoto è stato il primo trattato vincolante per i cosiddetti Paesi dell’Annesso 1, cioé quelli più sviluppati, che si sono impegnati a ridurre le loro emissioni di gas climalteranti. Doveva essere la prima tappa di successivi accordi, ma in realtà è rimasto l’unico. Il solo impegno preso a Durban è stato decidere qualcosa entro il 2015 per poi implementarlo nel 2020. Un po’ come “fare le cose a babbo morto” perchè, se prendiamo per attendibili, e lo sono, gli outlook dell’Agenzia Internazionale dell’Energia, è ovvio che occorre un’azione immediata per evitare che l’innalzamento della temperatura superi i 2°C. L’unica novità in materia è stata la decisione dell’Unione Europea sul Pacchetto Clima ed Energia, il cosiddetto 20-20-20, una decisione autonoma che non ha avuto corrispondenza altrove.
Cosa comporterà nel breve, medio e lungo termine la riapertura delle centrali a olio combustibile?
Non è facile fare delle stime sulle conseguenze, innanzi tutto per insufficienza di informazioni. Di sicuro si tratta di centrali che, rispetto ai cicli combinati, emettono anidride solforosa, ma non sappiamo che razza di olio combustibile brucino. Sappiamo che la legislazione italiana permette di arrivare fino al 3% di contenuto di zolfo nell’olio combustibile, ma, al di là dell’emergenza, che doveva ovviamente essere coperta, nessuno si è preoccupato di specificare quali caratteristiche dovesse avere l’olio da bruciare.
Chi è che ha autorizzato l’operazione?
Il Ministero d’intesa con l’Autorità per l’Energia Elettrica e il Gas. Ovvio che l’autorizzazione veniva dall’emergenza, che spero finisca a breve, ma non ho trovato da nessuna parte indicazioni sulla qualità dell’olio utilizzato. C’è però un dato di fatto: il quantitativo di CO2 emessa dalle centrali a olio combustibile è il 50% in più rispetto a quello emesso dai cicli combinati. Questo significa che, anche nel caso in cui venisse impiegato un olio combustibile “di buona qualità”, se così si può dire, ogni chilowattora prodotto in questi giorni dalle centrali a olio emetterebbe comunque una volta e mezza la CO2 emessa da un impianto a gas. Questo perché la CO2 è intrinseca nella natura dell’olio combustibile e non la si elimina semplicemente utilizzando un olio più pulito.
Cos’altro si poteva fare?
Purtroppo niente. L’Italia è un Paese che ha puntato molto sul gas: ne utilizziamo un’altissima percentuale soprattutto per produrre più della metà dell’energia elettrica e non ci siamo mai preoccupati di diversificare i sistemi di approvvigionamento. Circa i due terzi del gas che bruciamo provengono o dall’Algeria, poco sicura per i continui attentati, o dalla Russia, nella quale siamo sempre stati “clienti” di secondo piano, o per il troppo freddo o, come è successo quest’anno, per le elezioni presidenziali, che hanno anteposto i concittadini di Putin a noi. L’unica soluzione sarebbe far arrivare il gas da altri Paesi, come l’Asia Centrale per esempio, ma scatenerebbe la Russia, tesa a difendere il suo monopolio, e anche alcuni grandi enti italiani, come l’Eni. Ci si dimentica di dire, però, che, eliminando gli ostacoli al loro sviluppo, il problema lo avrebbero potuto risolvere le rinnovabili. Se avessimo avuto un po’ più di chilowattora prodotti dalle rinnovabili, se avessimo cioè cominciato quando ha cominciato la Germania, non avremmo avuto alcun bisogno di riaprire le centrali a olio combustibile, nè tantomeno di dipendere dall’estero energeticamente.
Si può dire che in Italia ancora non esiste una strategia energetica?
Ah, questo lo si può affermare tranquillamente. E lo dimostra il fatto che una legge del 2008, poi replicata nel 2010, chiedeva al Governo di predisporre una strategia energetica nazionale entro 6 mesi, da sottoporre alla conferenza nazionale Energia e Ambiente. Siamo nel 2012 e la strategia energetica nazionale è diventata come l’araba felice, anzi peggio perchè non solo non si sa dove sia finita, ma nessuno ne parla più. Che due leggi della Repubblica italiana a distanza di 2 anni abbiano ritenuto essenziale che il Governo predisponesse e sottoponesse a serrati dibattiti e confronti una strategia energetica nazionale, significa che ovviamente una strategia non c’è.
Quali sono le opportunità che potremmo cogliere da Rio+20 e come sarebbe lungimirante prepararsi?
Nel 1992, a Rio, per la prima volta si è preso atto dell’esistenza di un problema climatico e della necessità di difendere la biodiversità. Sono passati 20 anni e le aspettative che c’erano sono state in larga misura disattese. Rio+20 capita in un momento in cui, a causa della crisi mondiale, sarà facile sostenere che ci sono questioni ben più urgenti da risolvere, come evitare che la Grecia falllisca, che l’Europa crolli o che si realizzi la possibile recessione della Cina di cui si sente parlare: tutti argomenti facilmente utilizzabili. Oltretutto a Rio l’Italia si presenterà col Governo attuale che, tranne l’eccezione di Clini, rispetto a questi temi non ha dimostrato una grande attenzione, anzi…
Quanto è lontana ancora la Green Economy?
Se per green economy intendiamo l’avanzamento delle rinnovabili e dell’efficienza energetica, poco, dato che secondo le roadmap al 2030 avremo raggiunto grandi risultati a livello dell’Unione europea. Ma green economy vuol dire anche mobilità sostenibile, città sostenibili, progettazione e realizzazione di manufatti che abbiano il minimo contenuto di materiali pregiati e che siano facilmente riciclabili e da questo punto di vista siamo ancora all’abc. Le rinnovabili e l’efficienza energetica sono un grosso strumento della green economy e stanno andando avanti con le loro difficoltà; il resto no.
E potrebbero essere il motore per uscire dala crisi e rilanciare le nostre economie?
Certamente. Nessuno lo menziona mai, ma il Fondo Monetario Internazionale, che non ha certo la fama di essere una struttura progressista e avanzata, qualche anno fa ha pubblicato un quaderno tecnico in cui sosteneva che la green economy fosse uno degli strumenti vincenti per uscire dalla crisi. È lo stesso documento lanciato da Obama nel 2008 sul quale egli puntava molto e che forse oggi non sa neanche più dove sia finito.