Il denaro necessario per invertire la perdita globale di biodiversità arriverà in parte da nuovi flussi – 200 mld $ - e in (gran) parte dalla cancellazione o modifica dei sussidi ambientalmente dannosi. Non passa l’idea di creare un fondo ad hoc cui debbano contribuire solo i paesi ricchi, ma il Nord globale si impegna a mobilitare 30 mld $ l’anno entro fine decennio
I nuovi fondi per la tutela della natura erano uno dei temi caldi del vertice
(Rinnovabili.it) – Per funzionare e non ripetere gli errori del passato, il nuovo Global Biodiversity Framework deve reggersi su due gambe: monitoraggio costante e fondi sufficienti. L’accordo sulla tutela della natura al 2030 raggiunto a Montreal li tocca entrambi. Ma i risultati non sembrano convincenti per tutti. Anzi: il dossier della finanza per la biodiversità ha quasi fatto naufragare la COP15 all’ultimo minuto, dopo aver fatto litigare le delegazioni per due settimane.
Quanto denaro mobilita il nuovo Global Biodiversity Framework?
Il nodo della finanza è condensato nell’obiettivo 19 dell’accordo di Montreal. Con l’intesa raggiunta alla COP15, i paesi membri della Convenzione per la diversità biologica (CBD) si impegnano a rendere disponibili 200 miliardi di dollari l’anno entro il 2030. Una quota da raggiungere “progressivamente” e sfruttando “tutte le risorse”, cioè sia fondi pubblici che privati.
È abbastanza? Se l’obiettivo verrà raggiunto -non è scontato: un target analogo per il clima, da 100 mld $ l’anno, è stato mancato nel 2020- coprirà solo una parte dei fondi che si stima sarebbero necessari per rafforzare la tutela della natura. Le stime più solide, usate come riferimento alla COP15, fissano la cifra necessaria intorno ai 722-967 mld $ l’anno. Visto che ad oggi il denaro mobilitato annualmente per la biodiversità è tra i 124 e i 143 mld $, il gap di finanza è di 598-824 mld. Nella migliore delle ipotesi, quindi, l’accordo trovato a Montreal copre 1/3 della finanza necessaria.
La COP15 ha deciso di ‘tappare il buco’ non con nuovi fondi, ma con un’azione sui sussidi ambientalmente dannosi. L’idea è che cancellandoli o rimodulandoli in modo da favorire la biodiversità, si possa ottenere una quota di finanza per la natura che basti per colmare il gap. Tanto più che la stima globale dei SAD ammonta a 1.800 mld $. Ne parla l’obiettivo 18 dell’accordo, che fissa il target ad almeno 500 mld $ di sussidi l’anno entro il 2030 da convertire in benefici per la natura. Ovviamente, la reale efficacia di questa misura dipenderà dall’impatto specifico di ogni singolo nuovo sussidio trasformato. Su questo punto, l’intesa di Montreal non dà indicazioni.
Chi paga per la tutela della natura?
L’altro grande problema di cui si è discusso a lungo al vertice in Canada, oltre all’ammontare totale, è quanto devono sborsare i paesi più ricchi. Anche alla COP15, come il mese prima alla COP27 di Sharm, i paesi in via di sviluppo hanno provato a chiedere contributi maggiori al Nord globale. Ma con esiti molto diversi.
La richiesta principale era di raddoppiare il fondo per la biodiversità, creandone uno ad hoc da 100 mld $ l’anno a cui avrebbero contribuito i soli paesi ricchi. In pratica, la copia carbone del target di finanza per il clima deciso a Copenhagen nel 2009 e ancora disatteso due anni dopo la deadline del 2020. Ma l’idea non ha trovato il favore di tutti i paesi in via di sviluppo e soprattutto non ha avuto l’appoggio della Cina, organizzatore della COP15. Da qui il finale al cardiopalma nella notte tra domenica e lunedì scorsi. Il Congo, in plenaria, si è opposto all’accordo definitivo proprio perché mancava il nuovo fondo, ma la Cina ha semplicemente ignorato la delegazione africana e ha approvato il Global Biodiversity Framework.
Ci sono però delle clausole che vincolano i paesi ricchi. Il comma a) dell’obiettivo 19, infatti, prevede che i paesi sviluppati sborsino almeno 20 mld $ l’anno entro il 2025 e 30 mld entro il 2030. Un obbligo a cui possono anche partecipare altri paesi che si “assumono volontariamente” quest’onere -leggi, la Cina- e che deve beneficiare soprattutto i paesi più vulnerabili e, in generale, quelli in via di sviluppo.