Continua a New York la conferenza intergovernativa per negoziare il primo “Trattato per la protezione dell’Alto Mare”a livello mondiale. Ma i colloqui stentano a decollare.
Conferenza intergovernativa sulla biodiversità marina delle aree al di là della giurisdizione nazionale, gli obiettivi
(Rinnovabili.it) – Lontano dai grandi riflettori mediatici, il 15 agosto la Conferenza intergovernativa per redigere il primo Trattato sulla Biodiversità Oceanica ha aperto a New York la sua quinta e probabilmente ultima sessione. Un appuntamento fondamentale che chiuderà la lunga serie di negoziati avviati nel 2018 dalle Nazioni Unite per creare uno strumento internazionale per la protezione marina. Nonostante il poco clamore che sta accompagnando l’evento, la posta in gioco è alta. Nella Grande Mela i leader internazionali decideranno il futuro dell’Alto Mare, quei due terzi di oceano in cui tutti gli Stati hanno lo stesso diritto di sfruttamento delle risorse.
Perché si tratta di un appuntamento essenziale? Perché l’Alto Mare ospita alcuni dei più grandi serbatoi di biodiversità del Pianeta, fornendo rotte migratorie per balene e squali e ospitando ecosistemi essenziali come i coralli delle acque profonde. Oltre ovviamente a svolgere un ruolo fondamentale nel sostenere le attività di pesca. E, allo stato attuale, è in balia degli appetiti nazionali potendo contare su una protezione che copre appena l’1,2% delle sue acque.
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Verso il primo Trattato sulla biodiversità oceanica dell’Alto mare
Per estendere tale tutela è nata la Conferenza intergovernativa sulla biodiversità marina delle aree al di là della giurisdizione nazionale. Il vertice, attraverso una serie di sessioni che si sono susseguite dal 2018 ad oggi, ha cercato di definire gli strumenti per la conservazione e l’uso sostenibile della diversità biologica marina. Un lavoro complesso da cui dovrebbe scaturire il primo Trattato mondiale sulla biodiversità oceanica (UN High Seas Treaty). Uno strumento giuridicamente vincolante per tutelare entro il 2030 almeno il 30% delle acque internazionali attraverso una rete di Aree Marine Protette. I negoziati, che si concluderanno il 26 agosto 2022, dovranno necessariamente chiudere la bozza dell’accordo. Valutando, tra le altre cose, le risorse genetiche marine – comprese le questioni sulla condivisione dei benefici – gli strumenti di gestione territoriale, le valutazioni di impatto ambientale, il rafforzamento delle capacità e il trasferimento delle tecnologie oceaniche.
“Spero che potremo fare progressi reali in queste due settimane, con l’obiettivo di finalizzare l’accordo il prima possibile”, aveva dichiarato a inizio vertice la presidente della Conferenza intergovernativa Rena Lee, invitando i delegati a rimboccarsi le maniche. “Sforziamoci di raggiungere un accordo che sarà equo, equilibrato, attuabile e che attirerà la partecipazione universale”.
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Ma i progressi fatti in questi giorni non soddisfano gli ambientalisti che oggi denunciano una lentezza esasperante. Secondo quanto riportato da Greenpeace in queste ore, le delegazioni avrebbero perso ore a discutere di questioni minori, riaprire problemi precedentemente risolti o ripetere vecchie posizioni. Nel contempo alcuni delegati del Nord del mondo si rifiuterebbero di fare concessioni per soddisfare le esigenze dei paesi del Sud del mondo su questioni chiave relative all’equità. “I delegati si stanno comportando come se avessimo un altro decennio per continuare a parlarne. Ma non lo abbiamo”, spiega Arlo Hemphill, Senior Oceans Campaigner di Greenpeace USA. “Il tempo stringe per i nostri oceani. Se non otterremo un trattato nel 2022, sarà praticamente impossibile proteggere il 30% degli oceani del mondo entro il 2030. Gli scienziati affermano che questo è il minimo assoluto necessario per tutelarli”.