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Finalmente il trattato Onu sull’alto mare è realtà: perché è così importante?

L’accordo è il 1° a istituire una tutela per le aree di mare che non ricadono nelle giurisdizioni nazionali, mettendo fine al far-west delle attività commerciali in mare aperto. Entrerà formalmente in vigore quando sarà ratificato da un numero sufficiente di paesi, che si riuniranno regolarmente in una conferenza delle parti (Cop)

Trattato Onu sull’alto mare: accordo storico dopo 20 anni di negoziati
Foto di Todd Cravens su Unsplash

Il 4 marzo a New York più di 100 paesi hanno detto sì al trattato Onu sull’alto mare

(Rinnovabili.it) – Dopo quasi 20 anni di negoziati, sabato 4 marzo i paesi membri dell’Onu hanno siglato il primo accordo internazionale che tutela il mare aperto. Il trattato Onu sull’alto mare (UN Treaty on High Seas) è considerato un risultato storico per la protezione della biodiversità e degli habitat oceanici. Finora solo le regioni che ricadono nelle acque territoriali (12 miglia dalla costa) o nelle zone economiche esclusive (fino a 200 miglia) potevano avere qualche forma di protezione legale. Il nuovo accordo estende l’obiettivo di mettere sotto tutela il 30% dei mari entro il 2030 anche al mare aperto, una regione immensa che occupa due terzi degli oceani mondiali.

Cosa prevede il trattato Onu sull’alto mare?

L’accordo comprende tre punti principali: la tutela del 30% degli oceani, la condivisione delle risorse genetiche marine e criteri più stringenti per ogni attività umana in questi ecosistemi. Istituisce anche una conferenza delle parti (Cop), un forum analogo a quelli sulla biodiversità e sul cambiamento climatico, che si riunirà regolarmente e potrà attribuire a determinati Stati la responsabilità per l’eventuale mancata protezione.

Il trattato Onu sull’alto mare istituisce un quadro legale nuovo che permette la creazione di aree marine protette nelle acque internazionali. L’obiettivo è di tutelare almeno il 30% degli oceani entro la fine di questo decennio, percentuale mutuata dalla Cop15 sulla biodiversità che si è tenuta in Canada lo scorso dicembre. Di fatto, quando il trattato entrerà in vigore (non è automatico: deve prima essere ratificato da un numero sufficiente di Stati), aiuterà i paesi a rispettare gli impegni presi alla Cop15.

Come saranno fatte queste aree marine protette e soprattutto che tipo di protezione prevedono, è ancora tutto da decidere. Il tema è stato al centro di duri negoziati. Una parte dei paesi premeva perché la tutela fosse limitata a un uso sostenibile delle risorse marine, mentre altri Stati chiedevano che fosse prevista una protezione totale. Questo nodo è rimasto insoluto.

Il lato positivo è che la protezione dell’alto mare permetterà di creare delle zone tutelate interconnesse tra loro, adattandosi meglio agli areali di molte specie marine e quindi supportando meglio la loro sopravvivenza. Secondo le ultime stime dello Iucn, la più grande associazione conservazionista al mondo, circa il 10% delle specie marine note oggi è a rischio estinzione. Per squali e razze la percentuale è oltre il 90%, per i pesci è al 67%, per i coralli il 15%.

Risorse genetiche marine

Braccio di ferro che si è verificato anche sul tema della condivisione delle risorse genetiche marine, cioè come effettuare una suddivisione equa delle conoscenze e dei profitti relativi al materiale genetico degli organismi che si trovano in mare aperto. Spugne, coralli, krill, batteri e alghe hanno un bagaglio genetico dal quale è possibile ricavare nuove conoscenze (e guadagni) in medicina e in cosmetica.

Scappatoia per il deep sea mining

Infine, il trattato Onu sul mare aperto prevede che si debbano produrre delle valutazioni ambientali più complete prima di procedere con attività antropiche capaci di interferire con questi ecosistemi. Anche in questo caso, però, c’è una scappatoia non piccola: gli organi internazionali già in funzione che regolamentano specifiche attività potranno continuare a essere indipendenti e non dovranno rispettare le decisioni del trattato appena siglato.

Questo significa che, per esempio, le miniere sottomarine (deep sea mining) potranno procedere il loro iter come stabilito dall’International Seabed Authority (Isa), senza doversi adeguare alle procedure previste dal trattato Onu sull’alto mare. Entro il 2023, l’Isa annuncerà il primo quadro di regole per operare le miniere ‘a mare aperto’, dando formalmente il via a un nuovo settore industriale di cui non si conoscono gli impatti sugli oceani.