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Pesticidi, agroindustria, cambiamento climatico: così collassa la popolazione degli insetti

La scienza non riesce ancora a dare stime certe, ma negli hotspot più critici il 40% delle specie è in declino. La scomparsa degli impollinatori minaccia la produzione di cibo sul pianeta, ma gli agricoltori hanno paura di abbandonare i pesticidi e passare all'agroecologia

pesticidi insetti
Credits: pxfuel.com

di Francesco Panié

(Rinnovabili.it) – Tre quarti delle colture globali dipendono dall’impollinazione degli insetti, dal loro lavorìo paziente e costante. Le api devono visitare circa 10 milioni di piante per raccogliere nettare a sufficienza per mezzo chilo di miele: nel farlo, trasportano il polline di fiore in fiore, garantendo la riproduzione. Altre specie di questi minuscoli animali sono alleate degli agricoltori e contribuiscono alla decomposizione del materiale organico che migliora la fertilità del suolo. Ben 90 specie di insetti, inoltre, tengono lontani dai campi i parassiti, in una lotta biologica che permette un equilibrio senza bisogno di fare ricorso ai pesticidi.

Sono alcuni dei dati che saltano all’occhio scorrendo il nuovo Atlante degli insetti pubblicato dalla Fondazione Heinrich Böll e redatto dai ricercatori di Friends of the Earth Europe. Il dossier analizza lo stato di questo microcosmo e mette in risalto la minaccia che l’agricoltura industriale rappresenta per questo enorme patrimonio di biodiversità. Con il suo massiccio uso di prodotti fitosanitari, cresciuto di 50 volte dal dopoguerra ad oggi, l’agroindustria è il primo killer degli insetti, e in particolar modo degli impollinatori.

L’espansione del settore primario è stata stupefacente. In soli 300 anni, tra il 1700 e il 2007, le aree a seminativo e a pascolo sono aumentate di cinque volte, con rapidità particolare tra il XIX il XX secolo. Fra il 1980 e il 2000, più del 50% delle nuove terre agricole ai tropici era stata ottenuta con la deforestazione. Fra il 2000 e il 2010, questo dato ha raggiunto l’80%. 

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Gli scienziati non sono in grado di fornire un numero certo per circoscrivere il declino globale degli insetti. Una ricerca dell’Università di Sydney nel 2018 ha messo insieme i dati di diversi studi effettuati in regioni a rischio. Si è riscontrato che in queste zone il 41% delle specie sono in declino e un terzo è a rischio estinzione.

Se per l’Atlante il problema è l’agroindustria, l’agroecologia può essere la soluzione. I cosiddetti field margins (gli spazi più esterni del campo coltivato che comprendono scoline, vegetazione erbacea, arbusti, siepi, fasce tampone, aree lasciate a maggese) sono punti di partenza indispensabili per il controllo biologico dei parassiti. Non è solo una questione di tecniche, ma di modello: la minore resa delle colture agroecologiche può essere compensata da cambi nelle politiche agricole, per interrompere la produzione di carne, mangimi e biocarburanti su vasta scala. Secondo i ricercatori, si recupererebbero terreni agricoli in abbondanza per sfamare il pianeta.

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L’altra grande minaccia da fronteggiare è il cambiamento climatico, che danneggia in particolare gli habitat degli insetti nelle regioni calde. Nelle zone temperate, invece, l’aumento delle temperature può spostare l’equilibrio tra insetti “benefici” e “dannosi”, con ovvie ripercussioni sui raccolti. Ad esempio, mentre le farfalle soffrono il caldo, così non è per le voracissime locuste, di cui le cronache hanno da poco raccontato gli effetti devastanti in Africa orientale, India, Brasile meridionale e perfino in Sardegna.

Le politiche internazionali ed europee, finora hanno deluso. La Convenzione sulla diversità biologica (CBD), nata nel 1992 per preservare la molteplicità delle specie viventi in tutto il mondo e firmata da oltre 160 paesi, è l’accordo internazionale più completo che tutela la “natura” e le “risorse naturali”. Tuttavia, l’obiettivo di arrestare la perdita di diversità biologica entro il 2010 non è stato raggiunto.

Anche la proroga al 2020 vede i target ormai fuori portata. L’Unione europea, dal canto suo, sta puntando ancora sul cavallo sbagliato: con la Politica agricola comune (PAC), ricompensa soprattutto chi ha grandi estensioni agricole, mentre in cambio non richiede misure concrete per proteggere la biodiversità o mitigare il cambiamento climatico, né obbliga gli Stati membri a stanziare una parte maggioritaria dei finanziamenti all’agricoltura per promuovere obiettivi ecologici. Senza condizioni forti e vincolanti per la ricezione dei fondi, gli autori del rapporto sono convinti che perderemo la sfida. Nemmeno la tecnologia potrà salvarci: la costosa impollinazione manuale e gli esperimenti con le api robot nelle serre rappresentano tentativi estremi di non cambiare modello agricolo. Con tutti i rischi del caso.