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Perdita di biodiversità, un disastro creato dall’uomo

Un dettagliato rapporto sullo stato della biodiversità nei vari habitat lancia un allarme sullo stato di degrado ecologico del Pianeta. Molti ignorano che la perdita di biodiversità è un fatto grave, portare consapevolezza e conoscenza può invertire il trend e incoraggiare a intervenire prima che sia troppo tardi

Foto di Claudia Beer da Pixabay

di Isabella Ceccarini

Il rapporto Biodiversità fragile, maneggiare con cura – Status, tendenze, minacce e soluzioni per un futuro nature-positive presentato dal WWF mette l’umanità davanti alle sue responsabilità senza sconti per nessuno.

A che punto è la perdita di biodiversità

La distruzione della biodiversità è una catastrofe: «l’impatto del genere umano su tutte le altre forme di vita è arrivato ad accelerare tra le 100 e le 1000 volte il tasso di estinzione naturale delle specie, avviando quella che è a tutti gli effetti una sesta estinzione di massa».

I numeri chiariscono subito perché la distruzione della biodiversità sia definita una catastrofe: in pochi decenni abbiamo ancora a disposizione il 12,5% della foresta atlantica, abbiamo distrutto più del 50% della barriera corallina, il 20% della foresta amazzonica (stima per difetto).

Anche l’Italia, che ha una biodiversità elevatissima (circa metà delle specie vegetali e circa un terzo di tutte le specie animali presenti in Europa), non sembra preoccuparsi più di tanto.

Siamo inconsapevoli del valore di questo patrimonio naturale che ha un impatto sulla nostra salute e perfino sulla nostra economia, e continuiamo a distruggerlo.

Proprio perché molti ignorano che la perdita di biodiversità è un fatto grave, il rapporto del WWF vuole portare consapevolezza e conoscenza per provare a invertire il trend, ma è anche un accorato appello a intervenire prima che sia troppo tardi.

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La pressione sull’ecosistema marino e terrestre

L’Italia è al primo posto in Europa per la ricchezza del suo patrimonio floristico (quasi 10mila entità vegetali), ma anche ai primi posti per tasso di invasione di piante aliene: una minaccia alla biodiversità che va a braccetto con la degradazione degli habitat e il cambiamento climatico.

Lo stesso discorso vale per le specie marine. Lungo le coste si concentra il 30% della popolazione italiana: una forte pressione antropica che rende estremamente vulnerabile il territorio.

Ancora una volta i numeri ci vengono in aiuto per avere un’idea chiara della situazione: il 25% delle specie animali marine del Mediterraneo sono a rischio di estinzione, dal 1990 al 2002 la posidonia è regredita del 25%, l’80% dei laghi e il 57% dei fiumi sono in uno stato ecologico non buono, il 100% degli ecosistemi dell’ecoregione padana sono a rischio (92% in quella adriatica, 82% in quella tirrenica).

La situazione a terra è altrettanto critica: le specie aliene invasive sono aumentate del 96% in trent’anni, oltre 1.150 Kmq di suolo consumati in quindici anni (equivalente alla superficie di Roma), 21.500 Kmq di suolo cementificato, 30% degli animali vertebrati a rischio estinzione, 89% degli habitat di interesse comunitario in stato di conservazione sfavorevole, 68% degli ecosistemi in pericolo (35% in pericolo critico).

L’impatto delle attività umane

La pressione sull’ecosistema è progredita velocemente dalla rivoluzione industriale, segno dell’impatto delle attività economiche umane.

Lo Stockholm Resilience Centre (SRC) nel 2021 aveva evidenziato il superamento del limite di sicurezza per cinque confini planetari: cambiamenti climatici, flussi biogenomici (ad esempio, inquinamento da fertilizzanti), integrità della biosfera (ad esempio, tasso di estinzione e perdita dell’impollinazione da parte degli insetti), cambiamento del sistema terra (ad esempio, deforestazione) e nuove entità (ad esempio, inquinamento da plastica, metalli pesanti e composti PFAS, ovvero sostanze chimiche prodotte dall’uomo e non presenti naturalmente nell’ambiente).

Nel 2022 SRC ha individuato il superamento di altri due confini: l’utilizzo di acqua dolce e l’acidificazione degli oceani. Un altro confine, non adeguatamente valutabile, è l’inquinamento da polveri sottili conseguente all’uso di combustibili fossili.

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La governance ambientale inadeguata

Se la direzione negativa è così ben tracciata, ci sono anche fattori che ostacolano o rallentano la risoluzione dei problemi, come la governance ambientale, inadeguata a risolvere problemi di così grande portata.

Gli investimenti sono limitati, la resistenza di interessi politici ed economici a breve termine è forte, mancano il coinvolgimento di tutte le parti interessate e quindi la trasparenza, la responsabilità e la sostenibilità nella gestione delle risorse naturali, la scarsa disponibilità di dati nazionali non permette una visione complessiva per pianificare gli interventi.

Il cambiamento climatico e l’estinzione delle specie sono processi profondamente interconnessi. La perdita di biodiversità influenza il clima, il cambiamento climatico influenza la biodiversità attraverso fenomeni, diretti ed indiretti, che si manifestano sul pianeta in maniera disomogenea: variazioni della temperatura (in aumento) e delle precipitazioni, innalzamento del livello del mare.

Specie aliene invasive

Le specie aliene invasive sono specie animali e vegetali introdotte, intenzionalmente o accidentalmente, in luoghi al di fuori del loro areale naturale e che hanno un impatto negativo sulla biodiversità indigena, andando ad occupare nicchie ecologiche di specie native con le quali entrano in competizione, mettendone a rischio la sopravvivenza perché meglio adattate.

Le specie aliene invasive sono la seconda principale minaccia alla biodiversità globale: hanno contribuito in modo determinate al 54% delle estinzioni delle specie animali conosciute, tramite predazione su specie indigene o competizione per le risorse (ad esempio, cibo, luoghi di riproduzione).

L’Europa ha ratificato un regolamento per prevenire e gestire le specie invasive sul quale l’Italia è ancora inadempiente.

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Lo stato dei suoli

Il suolo è composto da elementi minerali e organici, da aria e da acqua. I microrganismi presenti nel suolo (batteri, funghi e alghe) servono a rigenerare il suolo trasformando la materia organica di scarto nei suoi singoli costituenti chimici, fornendo a piante e animali i necessari nutrienti.

I suoli però sono sottoposti a erosione, inquinamento, perdita di sostanza organica. Secondo il rapporto ISPRA 2022 sul consumo di suolo, in Italia si perdono 2mq di suolo al secondo; nel periodo 2020-2021 si è persa una media di 19 ettari al giorno.

La cementificazione impermeabilizza il suolo e gli impedisce di filtrare e immagazzinare l’acqua, diventando complice del dissesto idrogeologico che continua a causare disastri e lutti nel nostro Paese.

La frammentazione del territorio inoltre riduce la mobilità delle specie e lo scambio genetico che rende vitali le popolazioni naturali. Le stesse aree protette perdono di efficacia, immerse in un mare di infrastrutture.

Le zone umide a rischio

Le zone umide sono tra i sistemi più a rischio del Pianeta: qui la perdita di biodiversità corre più veloce che in altri ambienti. Le aree umide sono tra gli ambienti con la maggiore diversità biologica, anche se si tratta di aree di piccola dimensione.

«L’inarrestabile degrado degli ecosistemi d’acqua dolce è causato dell’alterazione morfologica, idrologica ed ecologica dovuta al crescente consumo di suolo, ai prelievi idrici spesso fuori controllo e a un inquinamento diffuso che condizionano la vita delle specie animali e vegetali autoctone, insidiate anche dalla diffusione di specie aliene invasive».

I cambiamenti climatici influiscono gravemente sul ciclo idrologico: i periodi di siccità si alternano a forti precipitazioni che cadono su un territorio vulnerabile che rende impossibile ricaricare le falde.

A causa del riscaldamento globale in atto «la disponibilità media annua di acqua si potrebbe ridurre da un minimo del 10% entro il 2030 ad un massimo del 40% entro il 2100 (con picchi fino 90% per l’Italia meridionale), nel caso in cui le emissioni di gas serra rimanessero invariate».

Inoltre, «il 50% delle zone umide è interessato da pressioni legate all’agricoltura e oltre il 20% è stato impattato dall’espansione di pratiche agricole intensive e dall’allevamento».

Gli agroecosistemi

Gli agroecosistemi – che occupano il 52,1% della superficie nazionale – sono ambienti come campi coltivati a seminativi o colture arboree permanenti (frutteti, vigneti ed oliveti), pascoli e prati umidi stabili. All’azione umana si deve la conversione da ecosistema ad agroecosistema, dove la vegetazione colturale sostituisce quella originaria e la biomassa accumulata viene destinata al consumo di animali d’allevamento, al consumo diretto umano o a materie prime per l’industria e l’artigianato.

Questi ambienti sono caratterizzati da elementi del paesaggio rurale storico come siepi, muretti a secco, fontanili e filari di alberi, che offrono alle specie una grande varietà di fonti alimentari e rifugi. Gli agroecosistemi forniscono servizi ecosistemici: regolano il clima, influiscono sulla qualità dell’aria e delle acque, hanno un ruolo fondamentale nei processi di formazione del suolo e nell’impollinazione, favoriscono la conservazione della biodiversità genetica e, infine, forniscono beni quali cibo, acqua, legname, combustibile e altre materie prime.

Nelle aree più produttive sono aumentate le attività ad alto impatto ambientale: colture permanenti, frutteti, vigneti, colture intensive.

Anche l’Appennino ha subito delle trasformazioni: nei pascoli, i bovini hanno sostituito gli ovini con gravi ripercussioni sulla biodiversità di questi habitat.

Le sostanze chimiche di sintesi usate in agricoltura

La metà delle sostanze chimiche di sintesi ad oggi impiegate in agricoltura è rappresentata da erbicidi usati contro le piante infestanti; il 30% circa è rappresentato da insetticidi, usati contro gli insetti dannosi per i raccolti; per il 17% circa si tratta di fungicidi.

L’esposizione ai pesticidi influenza anche la salute della fauna.

Prati e pascoli non servono solo alla produzione di foraggio ma proteggono dall’erosione del terreno, hanno valore paesaggistico, conservano la biodiversità e riducono la concentrazione dei gas erra grazie al sequestro di carbonio.

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Tuttavia sono in calo a causa dell’abbandono delle aree rurali, specie quelle marginali, dovute allo spopolamento e al mancato ricambio generazionale, segnando così la fine dei sistemi agro-zootecnici estensivi.

L’agricoltura biologica è forse il primo alleato per contrastare la crisi degli agroecosistemi. Combatte il riscaldamento globale perché limita le emissioni inquinanti e permette di stoccare una maggiore quantità di anidride carbonica nel suolo.

Il disciplinare dell’agricoltura biodinamica impone di lasciare almeno il 10% della superficie aziendale ad aree per la tutela della biodiversità naturale; molte aziende agricole biodinamiche hanno specifici progetti per la tutela di habitat e specie selvatiche.

La strategia europea per la Biodiversità – che fissa una percentuale del 10% di aree agricole per la tutela della biodiversità – per essere efficace deve essere attuata a scala della singola azienda o gruppi di aziende di un comprensorio territoriale omogeneo, considerando tutte le tipologie colturali di tutti i territori, comprese le  aree rurali montane. Inoltre, la strategia UE oltre ad arrestare la perdita della biodiversità ha l’obiettivo del restauro ecologico degli habitat degradati.

Il Mediterraneo

Il mar Mediterraneo è un bacino semichiuso ricco di biodiversità, sia di flora che di fauna. Eppure anche qui le attività antropiche distruggono la biodiversità e causano erosione: la manomissione dei fiumi e la demolizione delle dune costiere per l’edificazione e la cementificazione hanno ridotto l’apporto di materiali necessari al ripascimento delle spiagge.

Altro elemento di pericolo per la salute del mare è la pesca eccessiva. Il 73% degli stock ittici è sovrasfruttato e la pressione della pesca sulle specie di interesse commerciale è mediamente doppia rispetto a quella sostenibile.

Una situazione aggravata dalla pesca illegale e dalla cattura accidentale di specie minacciate.

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Anche la pesca ricreativa ha il suo impatto, anche se è sottovalutato se non ignorato. Purtroppo a tutto questo fa riscontro la mancanza di controlli adeguati: un ostacolo alla conservazione delle risorse marine, anche all’interno delle aree protette.

L’acquacoltura è in aumento, ma le attività gestite in maniera non sostenibile possono causare gravi danni all’ambiente marino e alla sua biodiversità.

Le contaminazioni chimiche delle sostanze che arrivano al mare e l’inquinamento da plastica sono due impatti antropici che minacciano l’ecosistema marino.

Il cambiamento climatico sta causando un surriscaldamento delle acque che in un mare semichiuso come il Mediterraneo si alzano il 20% più velocemente che altrove: un fattore che incide fortemente sulla fauna e che fa emergere nuovi patogeni che mettono a repentaglio la biodiversità.