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Proteggere il 30% del Pianeta entro il 2030: luci e ombre dell’obiettivo 30 x 30

Chi ha proposto per primo l’idea di tutelare il 30% della Terra per frenare la perdita di biodiversità? Quali sono le basi scientifiche di quello che è appena diventato il target 3 del Global Biodiversity Framework? Quali sono le critiche principali e cosa sottolineano?

Obiettivo 30 x 30: cosa significa per la tutela della natura
Foto di Aaron Burden su Unsplash

La COP15 di Montreal ha fatto dell’obiettivo 30 x 30 la sua bandiera

(Rinnovabili.it) – Nei mesi che hanno preceduto la COP15 di Montreal è diventato il fulcro dell’intero negoziato sulla protezione della biodiversità. Da questo unico target, sui 20 in discussione al summit canadese, sembrava dipendesse il buon esito dell’intero patto globale sulla natura con orizzonte 2030. In realtà, l’obiettivo 30 x 30 -proteggere il 30% del Pianeta entro la fine del decennio- è solo uno dei tanti tasselli che servono per invertire la drammatica perdita di diversità biologica in corso. Probabilmente il più semplice da ‘vendere’ pubblicamente al i fuori della cerchia degli addetti ai lavori. Di certo, un target piuttosto controverso su cui si sono concentrate molte critiche. Vediamo più in dettaglio di cosa si tratta.

Chi ha proposto l’obiettivo 30 x 30?

Innanzitutto, da dove viene l’obiettivo 30 x 30? Chi l’ha proposto e quali sono le sue basi scientifiche? La risposta può sembrare spiazzante: questo target ha fatto capolino in modo strutturato per la prima volta in un articolo scientifico pubblicato nel 2019 su una rivista prestigiosa, Science Advances, ma non ha alcun reale fondamento scientifico.

In ‘A Global Deal for Nature: Guiding principles, milestones, and targets’, gli autori spiegano che appoggiano un target di protezione del 30% della superficie terrestre e marina, nonostante questa cifra sia con ogni probabilità inadeguata per raggiungere gli scopi di conservazione. La letteratura in merito, infatti, propone una forchetta molto vasta, dal 25 al 75%. Per gli autori, in ogni caso, l’obiettivo 30 x 30 è solo una prima tappa e dovrà poi salire almeno al 50%, il valore che riscuote più consenso in letteratura. Mancano però dei termini temporali di riferimento.

La scelta del 30% quindi è assolutamente arbitraria. E a sua volta si appoggia, o riprende, una analoga proposta formulata tre anni prima dalla IUCN, l’Unione internazionale per la conservazione della natura, cioè la più importante organizzazione conservazionista al mondo.

Più probabilmente, è un compromesso poco scientifico ma piuttosto pratico tra le esigenze individuate dai biologi, lo stato dell’arte tre anni fa, e l’11° degli Aichi targets (gli obiettivi globali sulla biodiversità con orizzonte 2020, sostituiti e aggiornati dal Global Biodiversity Framework approvato ieri dalla COP15). Entro il 2020, l’impegno era di assicurare una qualche forma di protezione ad almeno il 17% delle terre e il 10% delle acque.

Compromesso che è stato poi raccolto con entusiasmo dalla politica. L’8 gennaio 2021 è stata lanciata la High Ambition Coalition for Nature and People, un gruppo di 50 paesi guidato da Costarica, Francia e Gran Bretagna, che ha fatto dell’obiettivo 30 x 30 la sua bandiera. Riuscendo in pochi mesi a catalizzare l’azione di altri paesi e presentandosi alla COP15 come una pattuglia di oltre 100 Stati decisi a supportare il target.

Una soglia minima

Nonostante questa coalizione dica che proteggere il 30% delle ecoregioni terrestri entro questo decennio è ‘bold action’, il target non basta. Se si sfoglia la letteratura scientifica che si occupa di calcolare quanta parte del Pianeta debba essere conservata per mantenere intatti i servizi ecosistemici necessari all’uomo per sopravvivere e trovare un equilibrio con il mondo, l’obiettivo 30 x 30 appare come una soglia minima. Lo stesso articolo apparso su Science Advances affiancava al 30% di aree protette un ulteriore 20% designato come ‘aree di stabilizzazione climatica’. Dove la protezione accordata serve per assicurare che il riscaldamento globale non vada fuori controllo. Il totale fa 50%.

Questo è un aspetto cruciale: mentre la scienza ha sempre legato tutela della natura e della diversità biologica al contrasto della crisi climatica, la diplomazia internazionale ha continuato a trattare i due dossier separatamente. È solo con la COP27 di Sharm el-Sheikh che nel documento finale è apparso un riferimento esplicito alla biodiversità. Ma finora non si va oltre questo piccolo gesto, simbolico ma senza conseguenze pratiche. Alla COP15, l’obiettivo 3 dedicato al 30 x 30 non fa menzione del clima, anche se l’obiettivo 8 stabilisce -in termini fin troppo generici- di “minimizzare l’impatto del climate change e dell’acidificazione degli oceani sulla biodiversità”.

C’è poi un altro problema non da meno. L’obiettivo 30 x 30 stabilisce la quantità, ma non dice nulla sulla qualità. Che forma di protezione deve avere una certa area è lasciato ai singoli Stati. Questo può essere deleterio e, certamente, non rispecchia le raccomandazioni che si possono estrarre dalla letteratura scientifica.

Nelle bozze di accordo della COP15, le versioni precedenti del target 3 mostravano i segni di questa discussione. Una delle parentesi quadre -le opzioni ancora in discussione, per convenzione, vengono indicate così nei testi dei negoziati internazionali- specificava che il 30% di aree protette doveva “[includere una porzione sostanziale che sia strettamente protetta]”. Questa parte è stata bianchettata e non c’è nel testo definitivo, né appare qualsiasi altro riferimento in merito.

Ci sono invece dei timidi accenni a un altro tema importante relativo alla qualità della protezione della natura: la connessione tra le aree sotto tutela. Per ‘funzionare’ e giovare davvero alla biodiversità, le aree devono essere collegate tra loro il più possibile da corridoi ecologici. Delle zone spezzettate non servono a molto. Per molte specie anche una semplice strada è un impedimento che restringe l’areale e quindi riduce le possibilità di sopravvivenza in condizioni di stress. Ma il testo licenziato a Montreal resta più che sul generico e si limita a dire che le aree devono essere “ben connesse”.

Diritti di chi?

Ma non sono questi i motivi dietro la maggior parte delle critiche mosse all’obiettivo 30 x 30 negli ultimi anni. Molti dei paesi che sono stati contrari fino all’ultimo a questo target puntavano il dito su un altro aspetto: i diritti dei popoli indigeni e delle comunità locali. La ragione? È abbastanza comune che l’istituzione di un’area protetta, in molte parti del mondo, passi sopra a chi, in quell’area, ci vive anche da decine e decine di generazioni. Contribuendo a mantenere un equilibrio con l’ecosistema e conservando un sapere prezioso proprio per rendere più efficace la tutela di quella regione.

Su questo punto, la COP15 ha -per coì dire- blindato il testo. I diritti dei popoli indigeni sono presenti e ribaditi in molte parti del Global Biodiversity Framework e sono presenti in modo chiarissimo anche nella formulazione finale del target numero tre. Le conoscenze indigene sono anzi indicate come un modello da preservare e applicare su scala più ampia. D’altro canto, questi popoli rappresentano solo il 6% della popolazione umana ma vivono nell’85% delle aree designate per la conservazione, registra l’ultimo rapporto dell’Ipbes.