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La perdita di biodiversità accelera il rischio di malattie infettive

Uno studio su Nature passa al vaglio oltre 1000 pubblicazioni scientifiche per valutare quale sia il fattore di distruzione degli ecosistemi che più contribuisce ad aumentare la probabilità di diffusione di malattie infettive nell’uomo, negli altri animali e nelle piante. La perdita di specie ha un impatto notevolmente più altro di tutti gli altri fattori. Solo la perdita di habitat – attraverso l’urbanizzazione – riduce il rischio

Malattie infettive: il rischio più alto viene dalla perdita di biodiversità
Foto di Elena Mozhvilo su Unsplash

Una meta-analisi della letteratura scientifica su malattie infettive e fattori antropici di distruzione degli ecosistemi

La perdita di biodiversità è il fattore che più di ogni altro aumenta il rischio di diffusione di malattie infettive. La scomparsa di specie alimenta la probabilità di contrarre queste patologie sia per l’uomo sia per gli altri animali e per le piante. Più di quanto non facciano il cambiamento climatico, l’inquinamento da sostanze chimiche, la perdita di habitat e l’introduzione di specie aliene. Un’informazione importante per calibrare meglio le strategie di prevenzione e contrasto.

Lo afferma uno studio apparso su Nature in cui un gruppo di ricercatori dell’università di Notre Dame ha condotto un’analisi sistematica di oltre 1.000 studi in materia. I cui dati coprono tutti i continenti ad eccezione dell’Antartide e si focalizzano su più di 1.500 combinazioni di interazioni tra parassiti e organismi ospiti.

Perdita di biodiversità e malattie infettive

Dei 5 fattori vagliati, identificati come i principali driver di cambiamento dietro la distruzione degli ecosistemi, la perdita di biodiversità emerge come quello che guida la crescita del rischio di focolai ed epidemie. I cambiamenti nella diversità biologica degli ecosistemi, principalmente la perdita di specie animali e vegetali, provoca un aumento del rischio di diffusione di malattie infettive del 393% più grande di quello dell’inquinamento chimico, del 111% maggiore di quello del cambiamento climatico, e del 65% più elevato dell’introduzione di specie aliene.

Al contrario, un fattore come l’urbanizzazione è associato con una diminuzione del rischio di contrarre malattie infettive. Sia per la concentrazione di esseri umani in ambienti relativamente lontani dalla fauna selvatica, sia “perché lo sviluppo urbano è associato al miglioramento dell’acqua, dei servizi igienico-sanitari e all’igiene per gli esseri umani e alla perdita di habitat per molti parassiti e i loro ospiti non umani”, sottolineano gli autori.

Attenzione a non dimenticare la povertà

Lo studio avverte di non cercare, però, soluzioni semplici a un fenomeno così complesso. Innanzitutto, perché la maggior parte degli organismi è soggetto a più fattori di stress contemporaneamente. Affrontare solo la perdita di biodiversità per mitigare il rischio di malattie infettive, quindi, è un’opzione che si rivelerebbe inefficace.

C’è poi una considerazione socio-economica: l’interazione tra uomo e animali selvatici è motivata soprattutto dalla povertà, fattore che bisogna calcolare per calibrare le politiche in materia. “Sebbene i nostri dati suggeriscano che il cambiamento climatico, le invasioni e le perdite di biodiversità abbiano un ruolo nelle malattie infettive della fauna selvatica e dell’uomo, tutti questi fattori possono anche contribuire, esacerbare e intrappolare le persone nella povertà rurale, che è il più forte fattore di predice la trasmissione di malattie infettive dall’ambiente”, spiegano gli autori.

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