Australia, Israele e Sudafrica i più vicini al collasso ambientale
(Rinnovabili.it) – Il collasso ambientale degli ecosistemi rischia di essere una realtà per un paese su cinque. La distruzione della fauna selvatica, dei suoi habitat e delle sue specifiche nicchie ecologiche ne è il motore. E’ il succo dell’analisi condotta dal gruppo Swiss Re, una compagnia assicurativa tra le più grandi al mondo con sede a Zurigo. Lo spiega accuratamente in un rapporto pubblicato di recente, con cui l’azienda lancia il suo Biodiversity and Ecosystem Services Index (BES), cioè un indice che misura lo stress sugli ecosistemi e l’impatto sull’economia per aiutare il processo decisionale della politica e delle imprese.
Ed è proprio la previsione legata al versante economico quella su cui conviene puntare di più l’attenzione. Secondo i calcoli di Swiss Re, più della metà del PIL globale dipende da ecosistemi in cui vi è una biodiversità vibrante. Così, il collasso ambientale di questi ecosistemi può compromettere una buona fetta dell’economia mondiale. E soprattutto, sottolinea il rapporto, il rischio di raggiungere dei veri e propri punti di non ritorno sta crescendo.
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Anche se nascosto da un freddo linguaggio economico, che parla di “servizi” per intendere il ruolo di ciascun elemento in un ecosistema, il significato è chiaro. “Se il declino del servizio degli ecosistemi continua, la scarsità di risorse si può manifestare ancora di più, fino a raggiungere dei punti critici”, puntualizza al Guardian Oliver Schelske, autore principale del rapporto.
I paesi più a rischio secondo Swiss Re? Australia, Israele e Sud Africa sono in cima all’indice di rischio per la biodiversità. Seguiti a poca distanza da India, Spagna e Belgio. In zona rossa anche paesi con ecosistemi fragili e grandi settori agricoli, come il Pakistan e la Nigeria.
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Solo a metà settembre le Nazioni Unite avevano certificato che abbiamo mancato tutti gli obiettivi al 2020 sulla biodiversità. Soltanto 6 di questi si possono considerare parzialmente raggiunti. Da qui l’ONU ha cercato un colpo di reni promuovendo la Carta di Intenti per la Natura, un piano sottoscritto da 60 paesi alla vigilia del summit delle Nazioni Unite sulla biodiversità del 30 settembre scorso. La Carta ribadisce l’importanza di raggiungere quegli obiettivi e li lega alla ripresa post-covid. Un documento però generalissimo e programmatico, con poca concretezza e nessun impegno vincolante.