(Rinnovabili.it) – Una linea rossa da non varcare: la linea di confine tra il lecito e l’illecito, tra il rispetto dei diritti e la loro violazione. Tra il rispetto dell’ambiente e il suo sfruttamento con il fracking. Era questo il significato di quel telo rosso fuoco, steso per 400 metri da un centinaio di attivisti durante il flashmob di ieri sera a Roma. La manifestazione-lampo è nata grazie all’arrivo in Italia del Belarus Free Theatre, una compagnia di attori itineranti bielorussi che racconta – dentro e fuori dal teatro – i temi sociali e ambientali. Vi hanno preso parte anche gli attivisti di No Fracking Italia, l’associazione A Sud e la campagna Stop TTIP Italia.
«Roma ci ha invitati e noi abbiamo risposto – spiega Julia Farrington, Events Manager dei Belarus e produttrice artistica associata di Index on Censorship, organizzazione internazionale per la libertà di espressione – Non siamo un’organizzazione ambientalista, siamo attori, non possiamo fare il loro lavoro. Tuttavia, questi temi non vogliamo raccontarli soltanto sul palco. Ecco perché, dovunque andiamo, cerchiamo di abbinare allo spettacolo teatrale un evento di piazza, unendoci alle campagne locali in difesa dell’ambiente e dei diritti civili. È un modo di portare il nostro messaggio fuori dai luoghi dell’arte performativa e dare un contributo alle istanze delle comunità locali».
Tra le lotte promosse e sostenute dalla compagnia bielorussa, c’è anche quella contro i sistemi di produzione energetica invasivi e pericolosi. I Belarus, fuggiti dal loro Paese perché a rischio prigione con la dittatura di Lukashenko, ci hanno costruito sopra la Red Forest Campaign. Il nome rievoca il disastro di Chernobyl, che nel 1986 ha investito il 90% del territorio bielorusso, colorando di rosso le foreste. La Red Forest Campaign è nata per opporsi alla costruzione di un nuovo impianto nucleare a Ostrovets, al confine con la Lituania e con l’area Ue. Il progetto sta andando avanti, violando molte norme ambientali in vigore nell’Unione, ma è sostenuto dal dittatore, che bolla come “nemici dello stato” tutti coloro che si oppongono alla costruzione del nuovo impianto.
Fuggiti dal patrio suolo, tuttavia, nel corso degli anni i Belarus hanno ottenuto l’appoggio di grandi personalità del teatro e della vita pubblica internazionale, come Vaclav Havel, Mick Jagger, Arthur Kopit, Mark Ravenhill, Tom Stoppard, Jude Law, Kevin Spacey e il premio Nobel Harold Pinter.
«Il fracking minaccia le nostre provviste d’acqua – dichiara la compagnia – In molti paesi la legge potrebbe permettere alle aziende energetiche che utilizzano questo sistema di trivellare anche sotto i terreni privati – perfino nel vostro cortile».
In realtà tutto questo avviene già: in Inghilterra infatti il governo ha deciso di permettere il fracking sotto le case, rimuovendo il limite di 300 metri in vigore fino a pochi giorni fa.
L’Italia ne ha proibito la pratica, con un iter legislativo ancora in bilico: manca ancora un passaggio parlamentare, infatti, per rendere effettivo il divieto di fratturazione idraulica del nostro suolo. Avrà successo? È da vedere, dato che si sta delineando un quadro internazionale che non vedrebbe di buon occhio un no del nostro Paese. E qui entra in gioco il TTIP.
Il Partenariato transatlantico sul commercio e gli investimenti è infatti il potenziale vettore per lo sbarco del fracking nel nostro Paese e in Europa. Si tratta di un accordo negoziato a porte chiuse, da oltre un anno, tra Commissione europea e Stati Uniti, che mira ad armonizzare i regolamenti dei due blocchi in modo da facilitare le esportazioni e portare alla costituzione di un’area di libero scambio senza uguali nel mondo. Il timore delle organizzazioni che difendono l’ambiente e i diritti sociali è forte. “Armonizzazione delle normative” per facilitare lo scambio commerciale può significare, dicono, soltanto una cosa: livellare gli standard europei su quelli americani, che prevedono minori tutele per l’ambiente, i servizi pubblici e il mercato del lavoro. Anche perché adottare le modalità vigenti nel vecchio continente per la commercializzazione dei prodotti e la protezione ambientale, non converrebbe a nessuna delle aziende multinazionali interessate all’accordo euroamericano. Costerebbe troppo, e minerebbe alla base lo scopo stesso del Trattato, ossia l’apertura dei servizi pubblici (scuola, acqua, sanità) all’investimento privato.
L’energia è uno degli aspetti chiave del TTIP: l’Europa guarda infatti con interesse allo shale gas americano, felice dei progressi dell’amministrazione Obama nel campo dell’estrazione degli idrocarburi non convenzionali. Lo sfruttamento intensivo delle risorse di gas e petrolio di scisto negli Stati Uniti, infatti, ha portato il Paese a superare di slancio Arabia Saudita e Russia nella produzione mondiale, attestandosi al primo posto. Non succedeva dal 1991. Si tratta di un traguardo straordinario per gli USA, che hanno ridotto drasticamente le importazioni e puntano all’autosufficienza nel 2050. Adesso si aprono nuovi scenari, potenzialmente in grado di cambiare la geopolitica del globo. Dopo più di 40 anni, l’America sta pensando seriamente di togliere il bando alle esportazioni.
Ma per fare certe cose bisogna essere in due, e serve qualcuno disposto ad importare. Casca dunque a fagiolo la crisi tra Ucraina e Russia, che sta portando ad un aumento dei costi del gas di Putin per i Paesi dell’Unione europea. Quale occasione migliore per tentare di affrancarsi dal blocco sovietico e volgersi ad ovest, di là dall’Atlantico, per fare man bassa del gas a stelle e strisce? La Commissione guarda all’America con una tale speranza da fare invidia ai Padri pellegrini, ma serve una contropartita. A noi l’energia, a loro la possibilità di venire a lavorare entro i confini Ue e scambiare merci in un mercato unico. Tuttavia va fatta qualche modifica ai nostri regolamenti, o sarebbe impossibile propinare al consumatore pollo lavato con la clorina, carne di bovini gonfiati con ormoni della crescita, OGM e sostanze chimiche proibite in ogni altro continente. Tutti prodotti che negli USA sono perfettamente legali e non etichettati. Il TTIP serve a questo, ma non solo.
Anche gas di scisto e petrolio da sabbie bituminose, estratti con procedure che impattano sull’ambiente e il clima molto più del petrolio convenzionale, necessiterebbero – per rispettare la legislazione Ue – di alcune “correzioni” del regolamento. Ecco perché, come documenta uno studio di Friends Of the Earth e Greenpeace (confermato dalle recenti dichiarazioni della stessa Commissione europea), l’intenzione di Bruxelles è togliere i paletti imposti dalla Direttiva europea sulla qualità dei carburanti (Fqd) per accogliere a braccia spalancate gli idrocarburi non convenzionali.
Poco importa se così gli obiettivi sulle emissioni saranno più difficilmente raggiungibili, se l’Europa perderà il ruolo di guida nel cammino di transizione verso un mondo più sostenibile. Business is business, e la qualità – checché ne dica la vulgata comune – non paga sempre. In un mondo in cui il mercato prospera laddove i costi di produzione si abbassano, per essere competitivi “bisogna” fare compromessi.