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Banche e carbone non conoscono crisi. Ecco perché

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(Rinnovabili.it) – La crisi economica non ha lambito l’industria del carbone. Le grandi banche europee e americane hanno continuato ad investire nelle attività minerarie e nelle centrali elettriche inquinanti, disinteressandosi completamente degli impatti ambientali e sanitari che il settore ha sulle nostre società. È quanto emerge da uno studio condotto da un gruppo di organizzazioni non governative – Rainforest Action Network, BankTrack, Friends of the Earth France e Urgewald – e pubblicato stamattina. Dimostra come nei 5 anni intercorsi fra la COP 15 di Copenhagen e la COP 21 di Parigi, gli istituti di credito non abbiano spostato significative somme di denaro da queste ad altre attività meno nocive per il clima e le persone. Anzi, la mole di denaro che gli investitori privati anno riversato nelle tasche dei grandi inquinatori è impressionante: 257 miliardi di dollari in 5 anni.

La classifica delle banche più esposte in questo settore vede al primo posto Citigroup, con 19,65 miliardi. Segue JP Morgan Chase con 18,8 miliardi, Royal bank of Scotland (15,86), BNP Paribas (14,84) e Bank of America (14,44). Nella top ten rientra anche Deutsche Bank, mentre Crédit Agricole è l’undicesima della lista. Quest’ultima si è proposta anche come distributore del denaro fatto confluire nel Green Climate Fund, il fondo verde per l’adattamento e la mitigazione costituito dall’ONU. Ma non dispone certo di un curriculum specchiato. Altra nota di “colore”: BNP Paribas è sponsor della COP 21, avendo contribuito a finanziare parte dei 170 milioni occorsi all’organizzazione dell’evento.

 

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Sul vertice ONU per il clima pendono numerose richieste di chiudere i rubinetti dei sussidi ai combustibili fossili, ma se il processo di riduzione nel settore pubblico è molto lento, quello che riguarda gli investimenti privati è del tutto fermo. Lo scandalo peggiore è nel pubblico: secondo una stima del Fondo monetario internazionale, arriveranno, nel solo 2015, 5.300 miliardi di dollari ad ingrassare gli inquinatori, una cifra che supera quella della spesa sanitaria globale e rappresenta il 6,5% del PIL planetario. Ma il processo è necessario che coinvolga anche gli attori privati.

Inoltre, nella bozza di testo da cui partiranno i negoziatori per raggiungere un accordo, non vi sono riferimenti al taglio di queste regalìe per la dirty energy. Un fatto che non lascia sperare nulla di buono: le ONG temono che il patto sul clima potrà mettere al massimo qualche buona parola sullo sviluppo delle rinnovabili, ma nessun vincolo all’interruzione dei sussidi alle fossili, che rallentano la transizione verso una economia a basse emissioni.

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