(Rinnovabili.it) – L’appuntamento dell’anno, la COP20 di Lima, non produrrà grandi novità per quanto concerne l’impegno dei Paesi sul cambiamento climatico. Tuttavia non è stata un’inutile passerella in attesa di Parigi, perché è la conferenza è servita ad accendere i riflettori su un fenomeno oscuro e preoccupante. Il tremendo assassinio in serie di leader indigeni e ambientalisti che lottano per proteggere le loro terre è salito agli onori delle cronache, non per merito dei governi – che hanno tutto l’interesse, spesso, a mettere la sordina a queste notizie – ma grazie ai gruppi ambientalisti che hanno saputo sfruttare il palcoscenico della COP per richiamare l’attenzione sul grave problema democratico che si accompagna a quello ambientale. Infatti, proteggere l’ambiente non solo non è mai stato più importante, ma soprattutto non è mai stato più pericoloso. Ieri, nella giornata mondiale per i diritti umani, la Ong Global Witness ha presentato il report “Deadly Environment”. Il gruppo ha mappato tutti i casi noti nel mondo (tra il 2002 e il 2013) di assassinio ambientale, se così si può chiamare, sviluppando infografiche tanto espressive da far accapponare la pelle.
La relazione individua un chiaro aumento delle morti con il passare degli anni, correlato direttamente all’intensificazione della competizione per lo sfruttamento delle risorse naturali. Almeno 908 persone sono state uccise in dieci anni: America Latina e area Asiatico-pacifica sono le zone particolarmente a rischio per l’attivismo ambientale. Si muore, in prevalenza, lottando contro la deforestazione e lo sfruttamento minerario, dalle Filippine al Perù, dal piccolo quanto rischiosissimo Honduras (109 morti) al Brasile (primo in classifica con 448 casi). I sicari delle corporations che sfruttano l’ambiente tendono imboscate agli attivisti, mentre governi corrotti e polizia a libro paga chiudono tutti e due gli occhi.
Non sono censite (perché troppo recenti) le morti di Edwin Chota – attivista peruviano che si batteva contro la deforestazione – ucciso il 1 settembre scorso, e quella recentissima e violenta dell’ecuadoriano José Tendetza, impegnato a contrastare una miniera a cielo aperto nella foresta.
Global Witness non manca di denunciare anche una grave carenza di informazioni e un monitoraggio istituzionale praticamente inesistente su questo problema. Tutto questo per dire che il numero delle vittime è probabilmente superiore a quello documentato dal rapporto. A questo scarso interesse delle autorità corrisponde un’impunità pressoché totale degli assassini. Solo uno su cento viene condannato.