Gli obiettivi virtuosi di una tesi sperimentale sull’agricoltura multifunzionale nella valle del Sacco
La valle del Fiume Sacco tra le provincie di Roma e Fosinone è un’area vasta altamente inquinata. Le ragioni dell’inquinamento risiedono nel modello intensivo di crescita insostenibile attuato per anni, frutto di un sistema di espansione industriale indirizzato allo sfruttamento delle risorse e alla massimizzazione del profitto. In un decennio, è possibile riqualificare questo territorio attraverso un progetto di agricoltura multifunzionale volto alla resilienza?
Promosso dalla “Cassa per le opere straordinarie di pubblico interesse per il Mezzogiorno” (Casmez), nel 1962 tra le provincie di Roma e Frosinone, nasce il “Nucleo di industrializzazione Valle del Sacco” che all’epoca garantisce un’intensa produzione nei settori bellico/chimico sino agli anni ’90. Nel 2005 la grave disattenzione nelle pratiche di smaltimento di sostanze tossiche evidenzia in un rilevamento l’elevata presenza della sostanza tossica Esaclorocicloesano (Hch), oltre la soglia consentita dalla normativa comunitaria, determinando uno stato di crisi socio-economico-ambientale.
Tale crisi induce a questo punto il Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare (MATTM), in collaborazione con la Regione Lazio, ad identificare la valle del fiume Sacco quale sito di interesse nazionale (SIN), con lo scopo di progettare un intervento di messa in sicurezza e bonifica del territorio, in accordo con il D.Lgs 152/06.
La recente e attuale sub-perimetrazione della valle del fiume Sacco, derivata dalla Conferenza dei Servizi del 2015, introduce quale elemento fondamentale le zone interdette ad uso agricolo dall’ex-Ufficio Commissariale per l’emergenza nel territorio del Fiume Sacco (UCE). Zone che, a causa del loro alto livello di inquinamento, sono definite aree no food, avendo perso la loro funzione primaria a livello agricolo.
In questo scenario, il progetto alla base della tesi sperimentale “Agricoltura multifunzionale come strumento di resilienza ambientale” cerca di rispondere alla domanda iniziale, attraverso la ri-funzionalizzazione di alcuni fra questi terreni interdetti ad uso agricolo (no food) tramite tecniche di bonifica attraverso fitodepurazione e successiva agricoltura multifunzionale. Il fine, nel lungo periodo, è quello di risanare e ricondurre le aree individuate ad uno stato “ottimistico” di pre-emergenza, alleviando il danno umano con pratiche socio-economiche ed ambientali.
Uno studio già avviato dal Cnr conferma come il rizorimedio, ovvero la pratica della piantumazione del pioppo Monviso, associato ad enzimi e batteri selezionati, riduca naturalmente l’inquinamento del suolo. Ciò che è rilevante, però, è associare a questa tecnica la produzione di biomassa per energia, tramite combustione del legname prodotto dal pioppo Monviso, garantendo addirittura un vantaggio economico. La costruzione di relative filiere in loco, infatti, permette di mantenere la vocazione agricola della zona, una redditività dei terreni ex-agrari, il disinquinamento dei suoli ed il mantenimento dell’identità estetica e funzionale del paesaggio agreste.
Tramite il GIS (Geographic information system) – piattaforma informatica digitale necessaria per funzioni di analisi, gestione ed elaborazione di dati geografici – con un procedimento di fotointerpretazione sono state identificate le aree di interesse idonee al progetto fra le zone interdette ad uso agricolo.
Nelle zone cartografate (Colleferro, Sgurgola e Supino) tramite tecniche del GIS sono stati circoscritti i suoli dove svolgere tutte le attività proposte, tenendo presente il livello di pericolosità causato dalla frequenza di esondazione del fiume Sacco.
Nella fascia a maggior rischio di esondazione, si determina l’utilizzo del suolo per la piantumazione del pioppo Monviso, volta al processo di fitodepurazione. Tale specie di pioppo, che assorbe naturalmente l’inquinante, associata con batteri e composti che rilasciano ossigeno (ORC), riduce l’inquinamento del suolo in questione fino al 60% del totale; si evince come tale processo sia in grado di depurare autonomamente i suoli senza eccessive attività antropiche. Nella fascia intermedia si propone una funzione multilivello del territorio che vede, da una parte, l’utilizzo del suolo per il rizorimedio, e dall’altra, la costruzione delle prime aziende di raccolta e stoccaggio del legno di pioppi più vecchi, per la successiva produzione di energia rinnovabile. La fascia più esterna, infine, viene dedicata alla costruzione di plessi volti alla produzione di bio-energia tramite la combustione del legno. Non a caso questa fascia è sita su suoli più distanti dagli argini del corso d’acqua, nel rispetto dei termini di sicurezza dettati dal rischio di esondazione.
Nell’area di Supino, una simulazione testimonia come la tecnica di fitodepurazione riduca, nell’arco di 10 anni (vita media di un pioppo), il livello di inquinamento da Esaclorocicloesano del 97% rispetto al valore iniziale del terreno in questione. In accordo con l’analisi condotta, emerge, inoltre, come un progetto di tale dimensioni porterebbe il comune di Supino a risparmiare circa il 10% dei propri consumi se utilizzasse l’energia prodotta dalla combustione di legna, prima utilizzata per depurare.
I risultati confermano come il progetto di bonifica e agricoltura rappresenti una valida risposta al tema del consumo di suolo, come alla ri-funzionalizzazione e produzione di bio-energia di aree naturali emergenziali.
di Francesco Cirone – Tesi sperimentale “Agricoltura multifunzionale come strumento di resilienza ambientale” – docente prof. Emanuele Santini – Università RomaTre.