
Con l’aumento del riscaldamento globale, il riuso potabile delle acque reflue sta diventando una risposta necessaria alla crescente scarsità idrica. Ma nonostante esistano tecnologie avanzate per garantire la potabilità dell’acqua – ampliandone l’impiego al di là degli usi agricoli e industriali – restano diverse barriere. La principale? Quella culturale.
Lo sostiene un position paper di Ref Ricerche dedicato all’impatto che avrebbe l’adozione del riuso delle acque reflue anche per scopi potabili in Italia.
Riuso potabile acque reflue, a che punto siamo?
Il riuso delle acque reflue è una strategia chiave per garantire l’approvvigionamento idrico in un contesto di cambiamenti climatici. Negli ultimi 50 anni, la disponibilità d’acqua in Europa è diminuita del 24% pro capite, e l’Italia è particolarmente vulnerabile alla siccità.
La normativa è già pronta. Per lo meno a livello europeo. Perché il regolamento UE 2020/741 definisce il perimetro del riuso per scopi agricoli, senza nulla dire su altri impieghi. Bruxelles lascia così agli stati membri la possibilità di introdurre una regolamentazione ad hoc per altri usi.
L’opportunità c’è, quindi. Ma l’Italia non l’ha ancora sfruttata. La normativa italiana – il dm 185/2003 –prevede il riuso per scopi industriali e civili. Manca però una normativa specifica per il riuso potabile delle acque reflue, sottolinea Ref Ricerche.
Anche superando l’ostacolo normativo (e quello dei costi, che però tendono a diventare sostenibili più aumenta la scarsità idrica), resta la barriera dell’accettabilità sociale, avverte Ref Ricerche. E su questo aspetto è bene lavorare per tempo, suggeriscono gli autori. Come?
Bisogna disinnescare il “fattore disgusto”, lo yuck factor che scatta per paura della contaminazione e per l’associazione dell’acqua trattata a quella di scarico. E la percezione del rischio gioca un ruolo centrale, anche se le tecnologie garantiscono elevati standard di sicurezza.
Fattore disgusto che è “radicato in associazioni culturali e psicologiche profonde” ed è legato a “un meccanismo psicologico ancestrale di evitamento dei patogeni”. Da cui dipendono risposte emotive immediate e forti. E anche “resistenti alla logica scientifica”.
Se anche le evidenze possono fallire, argomenta il paper, bisogna puntare su un mix di comunicazione efficace, trasparenza istituzionale e coinvolgimento delle comunità locali nel processo decisionale. Un esempio? Non parlare di toilet to tap, ma di acqua rigenerata. Usando un linguaggio positivo. Ma anche aumentare la conoscenza del ciclo idrico da parte della popolazione.