Gli oceani senza ossigeno occupano l’1% del volume totale dei mari
(Rinnovabili.it) – Occupano soltanto l’1% del volume totale dei mari, ma hanno un impatto importante sugli ecosistemi e sul clima. Sono gli oceani senza ossigeno, delle vere e proprie “bolle” di acqua dove la vita è impossibile. Sappiamo che si moltiplicano per effetto del riscaldamento globale: gli oceani hanno perso ben il 2% dell’ossigeno tra il 1960 e il 2010. E sappiamo che gli strati più profondi potrebbero perdere fino al 25% di O2 anche se azzeriamo le emissioni antropiche. Adesso un team di ricercatori del Massachussets Institute of Technology rivela dove sono e come sono fatte queste zone morte, con un livello di dettaglio senza precedenti.
I ricercatori hanno usato un nuovo metodo per elaborare oltre 40 anni di dati oceanici, in tutto quasi 15 milioni di misurazioni effettuate da spedizioni di ricerca e robot autonomi. Invece di considerare i valori assoluti rilevati dai sensori, che possono essere falsati, si sono concentrati sulle variazioni di valore lungo la colonna d’acqua. L’analisi restituisce una fotografia in 3 dimensioni degli oceani senza ossigeno, con mappe delle aree morte alle diverse profondità. Queste mappe rivelano il volume, l’estensione e le diverse profondità di ogni zona, insieme ad altri dettagli rilevanti come, ad esempio, i “nastri” di acqua ossigenata che si infiltrano in zone altrimenti impoverite.
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Il lavoro si è concentrato soprattutto sulle regioni tropicali del Pacifico, dove le caratteristiche dei mari rendono più difficile la stima dell’estensione degli oceani sena ossigeno. Le due zone morte più estese rilevate dai ricercatori si trovano al largo dell’America del sud e di quella centrale. La prima misura 600mila km3, qualcosa come 240 miliardi di piscine olimpioniche piene d’acqua anossica. La seconda è 3 volte più grande.
“È ampiamente previsto che gli oceani perdano ossigeno man mano che il clima si riscalda. Ma la situazione è più complicata ai tropici, dove ci sono grandi zone di carenza di ossigeno”, spiega Jarek Kwiecinski, uno degli autori dello studio. “È importante creare una mappa dettagliata di queste zone in modo da avere un punto di confronto per i cambiamenti futuri”.
La ricerca è pubblicata sulla rivista Global Biogeochemical Cycles.
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