Il 29 luglio potrebbe arrivare il via libero allo sfruttamento dei giacimenti sui fondali oceanici in acque internazionali e un quadro di regole comuni globali per le attività di deep sea mining. Attività controverse perché resta in larga parte ignoto l’impatto sugli ecosistemi. Intanto, alcune imprese italiane si sono mosse da anni per sondare il terreno. Mentre molte altre aziende, la cui catena di fornitura si intreccerà inevitabilmente con i metalli estratti dai fondali, sembrano ignorare il tema nei loro report di sostenibilità
Greenpeace pubblica una mappatura delle imprese nazionali legate alle miniere sottomarine
L’Italia non ha (più) grandi compagnie minerarie. Ma l’industria nazionale sta comunque seguendo da vicino l’evoluzione delle regole internazionali sullo sfruttamento delle miniere sottomarine. Ed è intenzionata a entrare in questa nuova nicchia di mercato non appena il quadro normativo lo consentirà. Forse anche puntando sul deep sea mining nelle acque nazionali.
Di estrarre minerali cruciali per la transizione – dal rame al litio, dal cobalto al nichel – dalle profondità oceaniche se ne parla, in modo concreto, da diversi anni. Manca però un quadro di regole internazionali, senza il quale ogni attività al di fuori delle acque interne – dove sono concentrati i giacimenti principali – è congelata.
Le incognite sono molte: non si conosce di preciso l’impatto che l’estrazione potrebbe avere su quegli ecosistemi, tra i meno esplorati del Pianeta. E gli studi condotti negli ultimi anni non hanno raccolto dati rassicuranti. Proprio nei prossimi giorni potrebbe però arrivare il via libera finale dall’ISA, l’International Seabed Authority, cioè l’organo Onu che sta lavorando a un testo condiviso. E di cui l’Italia, peraltro, fa parte.
Come si sta muovendo l’Italia sulle miniere sottomarine?
Nel frattempo alcune aziende italiane hanno iniziato a muoversi per farsi trovare pronte. Su tutte, Fincantieri, Saipem e Leonardo, spiega un rapporto di Greenpeace rilasciato di recente. Risale a ottobre 2023 un memorandum of understanding tra Fincantieri e Leonardo per avviare una collaborazione strategica su un ampio ventaglio di attività che riguardano la dimensione subacquea. Il perimetro include molti aspetti legati alla difesa e alla sicurezza nazionale, come la protezione di reti strategiche sottomarine, cavi, dorsali di comunicazione e infrastrutture offshore. Ma anche attività di “sea-mining ed estrattive sul fondale del mare per l’accesso a risorse minerarie preziose”.
Di oltre 3 anni prima, agosto 2020, è un altro accordo di collaborazione, questa volta tra Fincantieri e Saipem. Specificamente pensato per analizzare le potenzialità dello sviluppo del mercato del deep sea mining. Con la prospettiva di sviluppare applicazioni industriali che permettano lo sfruttamento delle miniere sottomarine, “nell’assoluto rispetto della sostenibilità ambientale”.
Tutte queste aziende, nonostante abbiano un interesse dichiarato, non citano mai il deep sea mining nei loro rapporti di sostenibilità. Lasciando opaco il loro approccio, soprattutto per quanto riguarda l’impatto ambientale. Così come nessuna delle altre aziende che, secondo Greenpeace, potrebbero essere interessate – perché inserite a vario titolo in catene di fornitura che si intrecceranno con le miniere sottomarine – hanno policy dedicate al deep sea mining o ne fanno menzione anche solo di sfuggita. L’associazione ambientalista passa al vaglio aziende come MSC Crociere, STMicroelectronics, Stellantis, Energy spa e FAAM (produttori di sistemi di accumulo), o imprese legate al comparto Difesa come Gaymarine (leader nel settore dei veicoli subacquei a controllo remoto, sia per finalità militari che di ricerca) e Cabi Cattaneo (anch’essa nel ramo dei veicoli subacquei).
Sullo sfondo, anche a livello politico l’Italia sta ingranando la marcia. Il governo Meloni è stato abbastanza esplicito sull’interesse per le miniere sottomarine. E a metà giugno si è svolto a Roma, ospitato dal MIMIT, un convegno organizzato insieme all’ISA che ha vagliato opportunità e sfide del deep sea mining. Durante il quale è stata ventilata la possibilità di prevedere attività di estrazione di metalli dall’oceano nella cornice del Piano Mattei per l’Africa.
Anche i fondali nazionali potrebbero rientrare nel radar dell’esecutivo. Di valutare le risorse disponibili nelle acque nazionali si è occupato il progetto europeo MIDAS, un consorzio di 32 enti da tutta Europa che dal 2013 ha mappato, tra le altre aree, anche il Palinuro Seamount nel Tirreno. Area che, per decreto del MASE, dal 2023 è riconosciuta come Sito d’Importanza Comunitaria (SIC), un tassello per la tutela speciale di almeno il 30% delle acque nazionali.
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