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Il rebus della dissalazione in Italia. Conviene davvero?

dissalazione in italia
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La dissalazione in Italia stenta a decollare, mentre nel mondo è utilizzata per il 70% dai paesi di Medio Oriente e Nord Africa

(Rinnovabili.it) – Il tema della siccità ha guadagnato spazio negli ultimi anni anche nella stampa non specializzata. Il cambiamento climatico è ormai incontestabilmente all’opera nel nostro paese e gli impatti sulle risorse di base sono evidenti. Per questo il tema della dissalazione in Italia scala posizioni nell’agenda politica. La difficoltà di trovare soluzioni di sistema spinge infatti verso la ricerca di tecnologie. Tra queste, ci sono quelle che permettono di desalinizzare l’acqua di mare, per avere nuove risorse con cui alimentare l’agricoltura industriale e le città.

La situazione globale

Arabia Saudita, Giappone, Australia, Israele e Corea del Sud sono tra i paesi che nel mondo hanno investito di più sui dissalatori. I sauditi coprono con l’acqua desalinizzata circa la metà della domanda di acqua dolce del paese, in cui vivono 33 milioni di persone. Anche in altre zone del Medio Oriente e Nord Africa gli investimenti in impianti di dissalazione stanno crescendo. Questa regione è infatti quella che più sfrutta la tecnologia. E tuttavia, nonostante una fornitura praticamente illimitata di acqua di mare, l’acqua desalinizzata rappresenta ancora circa l’1% dell’acqua dolce mondiale. Rimane infatti un processo molto costoso, che sta impegnando la ricerca scientifica nella sperimentazione di soluzioni che possano – un giorno o l’altro – renderlo più economico. 

Attualmente esistono circa 16 mila impianti di dissalazione in tutto il mondo, con una capacità operativa totale di circa 95,37 milioni di metri cubi al giorno e una produzione di salamoia di 141,5 milioni di metri cubi al giorno. Medio Oriente e Nord Africa detengono il 70% della capacità globale, seguono a distanza Stati Uniti, Asia ed Europa.

In Europa gli impianti di desalinizzazione sono situati principalmente nei paesi mediterranei. Qui, circa 1.200 impianti hanno una capacità complessiva di 2,37 miliardi di metri cubi l’anno, l’82% del totale europeo. La Spagna guida il settore nel vecchio continente, con 765 impianti, di cui 99 di grossa taglia, in grado di trattare da 10 a 250 mila metri cubi d’acqua al giorno.

I progetti di dissalazione in Italia

Il nostro paese conta 340 impianti di dissalazione, quasi tutti di piccola taglia e molti dei quali fermi. Il settore che non ha mai davvero preso l’abbrivio: l’acqua dissalata pesa infatti per lo 0,1% sul prelievo nazionale di acqua dolce. Il più grande impianto è quello della raffineria Sarlux di Saras, in Sardegna, con una capacità di 12 mila metri cubi d’acqua. Le acque dissalate in Italia vanno per il 70% al settore industriale e solo in minima parte all’agricoltura e agli altri utilizzi. 

Il recente decreto siccità, però, ha snellito le norme per la costruzione degli impianti. La decisione ha preoccupato gli ambientalisti, che avevano chiesto regole rigide per la gestione della salamoia. Le avevano trovate nella legge Salvamare, che obbligava alla valutazione di impatto ambientale le opere, per stimarne il rischio marino e costiero. I dissalatori, in più, erano ritenuti l’extrema ratio. Si sarebbe potuto costruire un impianto solo dopo aver esaurito tutte le altre opzioni: riparazione delle perdite nella rete idrica, pianificazione di settore, presenza di comprovata emergenza idrica nel luogo.

Il decreto siccità ha modificato lo scenario e progetti di nuovi impianti sono stati annunciati in Veneto e Friuli-Venezia-Giulia. Anche a Genova e Taranto sono stati promessi dissalatori. Tuttavia, mentre del primo non si hanno notizie da marzo, il secondo pare già tramontato. La promessa di costruire il più grande impianto di desalinizzazione d’Italia nella città pugliese contava anche sui fondi del PNRR. Ma la risposta della Commissione è stata un secco “nein”, visti gli impatti ambientali e climatici della struttura.

Come si dissala l’acqua di mare

Viste le crescenti controversie ambientali, è bene comprendere come funziona il processo per capire pro e contro di questa soluzione. La dissalazione può avvenire in diversi modi: esiste la dissalazione evaporativa, quella per osmosi inversa e a scambio ionico

Nel primo caso, come dice il termine, occorre una sorgente di calore per far evaporare l’acqua e poi recuperarla per condensazione, lasciando indietro un “rigetto” ipersalino. Si tratta delle tecnologie più vecchie, anche se oggi si possono installare a valle di un impianto ad osmosi inversa, per recuperare acqua in più.

Nel caso dell’osmosi inversa – la tecnica più utilizzata e su cui si investe per i nuovi impianti – l’acqua di mare viene risucchiata tramite pompe azionate da combustibili fossili o (più raramente) da rinnovabili. A questo punto passa attraverso membrane sempre meno permeabili, che filtrano progressivamente sabbia, batteri e solfati. Poi il liquido viene pompato ad alta pressione in una quarta membrana con pori da 0,1 nanometri e quindi effettivamente dissalato. Il residuo che si crea è chiamato salamoia

Il terzo tipo di dissalazione è quello per scambio ionico. Si basa su resine che rimuovono gli ioni Na+ e Cl- con ioni H+ e OH- in un unico passaggio. Si usa per piccole e piccolissime portate, massimo 1 metro cubo, o per ottenere acqua di purezza molto elevata. Lascia un residuo che è quello della rigenerazione delle resine.

Gli impatti ambientali

Una grande sfida associata alle tecnologie di desalinizzazione è la produzione della salamoia, il refluo ipersalino del processo più largamente utilizzato oggi nel mondo. Per ogni litro di acqua dolce prodotta, il processo produce 1,5 litri di acqua ipersalata. La salamoia richiede uno smaltimento costoso e associato a impatti ambientali negativi. Quando ritorna in mare, infatti, aumenta la salinità dell’acqua e uccide la vita marina. Ciononostante, è proprio questo il metodo più utilizzato per gestire i reflui. La salamoia viene scaricata in acquiferi profondi o in acque superficiali con un contenuto salino più elevato.

Secondo uno studio dell’Università delle Nazioni Unite, la produzione di salamoia è di circa 142 milioni di metri cubi al giorno, circa il 50% in più rispetto alle stime precedenti. La produzione in Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Kuwait e Qatar rappresenta il 55% della quota totale. Questo problema va poi associato alle emissioni dovute all’alta intensità energetica del processo e all’uso di sostanze chimiche. La salamoia prodotta dal processo di dissalazione viene infatti pretrattata. 

Tra costo dell’energia e impatti ecologici, quindi, per ora la tecnologia rimane confinata ai paesi con regole più lasse e meno problemi di prezzi energetici. Oppure a quelli che non hanno nessuna alternativa. Per tutti gli altri, prevale la cautela per un processo che resta molto controverso.

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