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In Campania un monitoraggio di sistema controlla l’agricoltura

I prodotti agricoli della Campania sono sicuri, grazie a un monitoraggio capillare dell’acqua, dei terreni e degli animali. Quindi “chi mangia campano non si ammala”, assicura Antonio Limone, direttore dell’Istituto Zooprofilattico Sperimentale per il Mezzogiorno (IZSM)

agricoltura campania

 

 

Poche regioni sono controllate in modo così minuzioso come la Campania. Analisi e monitoraggi svolti dall’Istituto Zooprofilattico Sperimentale per il Mezzogiorno con 50 enti e gruppi di ricerca hanno confermato la bontà dei prodotti agroalimentari della Campania; la biodiversità che caratterizza la Regione, tra l’altro, è un patrimonio da tutelare come i gioielli di famiglia. È stata costituita anche una biobanca, un progetto nato dalla collaborazione con enti di ricerca nazionali e internazionali: un prezioso strumento di studio grazie al quale si può capire se e quanti contaminanti sono migrati dall’ambiente verso l’uomo. La vera criticità è nell’uso indiscriminato di pesticidi, afferma il prof. Limone in questa intervista, e in una normativa carente per l’uso delle acque.

 

Tra le varie contaminazioni di cui è vittima, vera o presunta, la Campania si parla anche della presenza di metalli nel terreno. Ci può spiegare di cosa si tratta?

La presenza di metalli pesanti nel terreno non è un fenomeno così nuovo. Spesso la riscontriamo in alcune realtà dove c’è una particolare contaminazione-fenomeno e rientra negli elementi che ricerchiamo per dare una qualifica al terreno. Di metalli pesanti ne abbiamo trovati dove ci sono sversamenti o condizioni di contaminazione particolari. Però bisogna distinguere: è un fenomeno estraneo ai terreni agricoli. Infatti i terreni dove sono presenti metalli pesanti non sono destinati all’agricoltura, ovvero alla produzione agroalimentare.

 

Campania Trasparente e SPES (Studio di Esposizione nella Popolazione Suscettibile) hanno analizzato e monitorato il territorio con 50 enti e gruppi di ricerca. A quali risultati sono arrivati?

Abbiamo prelevato circa 30mila campioni, svolto un’attività di ricerca sui contaminanti, investito più di 10mila aziende che ci hanno consentito anche di fare un percorso di lavoro organico. In realtà, la storia del cibo campano incriminato perché poteva essere dannoso per la salute umana è una favola, questo è il punto vero. Il cibo campano è innocente. In questi tre anni abbiamo raccolto con questi enti circa 100mila dati. Il progetto Campania Trasparente, attraverso un monitoraggio di sistema, ci ha permesso di capire quello che succedeva nell’ambiente valutando il terreno sia in superficie che in profondità (top soil-bottom soil). Abbiamo analizzato la milza e il fegato di cinghiali e volpi, abbiamo studiato le lumache e i gasteropodi che sono a contatto col terreno e ci potevano dare qualche informazione in più, abbiamo fatto delle api il nostro bioindicatore perché attraverso il miele ci danno informazioni preziosissime. Queste attività si aggiungono a quelle che facciamo normalmente, dato che siamo un ente sanitario di diritto pubblico deputato per legge al controllo del cibo, compreso quello di origine animale.

Adesso stiamo cercando di creare un catasto apposito per inquadrare la situazione delle acque e delle falde acquifere, sia superficiali che profonde, che devono essere protette da eventuali possibili contaminazioni per garantire l’acqua potabile alle abitazioni. Grazie a circa 250 deposimetri abbiamo potuto valutare la qualità dell’acqua, abbiamo estratto i filtri e li abbiamo comparati per stagione. Insomma stiamo lavorando sull’ambiente in  modo serio e sullo studio dell’acqua siamo più avanti rispetto ad altri.

 

Dopo un’intensa attività di ricerca ci sembrava opportuno portare a conoscenza dell’opinione pubblica i risultati delle nostre analisi, utili a superare il pregiudizio della Terra dei Fuochi; la produzione del cibo campano sicuramente alcune criticità le ha, ma non sono peggiori di quelle presenti in altre realtà. Il cittadino, quindi, deve sapere che chi mangia campano non si ammala.

Ci siamo resi conto che le criticità vere non sono tanto legate a una contaminazione della Terra dei Fuochi quanto all’uso indiscriminato di certi pesticidi in alcune zone. Alla luce dei risultati che abbiamo a disposizione abbiamo capito che bisogna affrontare questo problema con una lente diversa, più aderente alla realtà, senza farci ingannare da facili pregiudizi.

 

Esiste una codificazione delle acque che distingue quelle per uso irriguo da quelle utilizzabili per uso alimentare?

Noi (intendo noi come sistema pubblico) dobbiamo fare in modo di classificare le acque e razionalizzarne l’uso. Dobbiamo convincerci che questa è una priorità. Su questo pianeta l’uomo si è mosso come se ne avesse avuti altri cinque a disposizione: ha sprecato di tutto – acqua, aria, terra – invece di preservare risorse vitali come l’acqua, la più pregiata e la più importante. Pertanto vanno riviste alcune normative: dovremmo cominciare a concepire l’acqua per uso irriguo con determinate caratteristiche, bisogna classificare i pozzi perché spesso in agricoltura ci sono i pozzi artesiani in un territorio di cui non si conosce l’entità, la composizione, la profondità, e quindi non si sa cosa c’è dentro quell’acqua.

È importante distinguere i vari tipi di acqua per evitare, ad esempio, che una falda acquifera superficiale possa contaminarne una profonda. Per questo bisognerebbe fissare delle norme anche per fare un pozzo artesiano. Faccio un esempio: se in profondità ho acqua buona, il mio tubo deve essere chiuso fino a un certo punto e non devono esserci fori per evitare la contaminazione tra falde acquifere in cui la qualità delle acque è differente. Tutto questo significa avere una capacità più agile di intervenire sul territorio, ma a monte serve un lavoro – come quello che stiamo facendo all’IZSM – di valutazione della qualità dell’acqua in vari punti per avere sempre il polso della situazione.

Uno scrupoloso monitoraggio dell’ambiente, che deve includere innanzitutto l’acqua, consente anche di dare al cittadino indicazioni persino in campo agricolo, perché si può salvaguardare la risorsa acqua con utilizzo razionale: sono stati prosciugati i fiumi per usi agricoli scriteriati.

Riteniamo che la normativa per l’uso delle acque sia ancora piuttosto carente, anche a livello nazionale, ma in Campania ci stiamo avviando sulla strada giusta.

 

In cosa consiste la biobanca che avete costituito?

La biobanca è un importante progetto che abbiamo realizzato in collaborazione con l’IRCCS Fondazione Pascale, con centri di ricerca nazionali (come quelli del CNR e dell’Università Federico II) e internazionali. In concreto, abbiamo selezionato un gruppo di persone – scelte non a caso, ma secondo un criterio che dava la possibilità di effettuare uno studio scientifico – a cui abbiamo prelevato a 4.200 campioni di sangue, di urine e di feci. Un primo esame è stato eseguito dall’Istituto Spallanzani. Abbiamo somministrato un questionario a soggetti individuati in base all’appartenenza a comuni ad alto, medio e basso impatto ambientale: avendo un dato importante sull’ambiente dove vivevano queste persone, riuscivamo a capire quanto fosse contaminato e quindi a classificarlo. Stiamo utilizzando questo sangue per fare una serie di valutazioni e per capire quanto contaminante dall’ambiente è migrato verso l’uomo e come ne ha modificato il genoma attraverso la lettura di biomarcatori di esposizione e di effetto.

Questo studio, che abbiamo chiamato SPES, è molto significativo: rappresenta una risorsa fondamentale per noi e per le future generazioni di studiosi. Si tratta dell’unico studio che ha investito 11 paesi e raccolto 12mila campioni: abbiamo ritenuto opportuno custodirlo in una biobanca con un funzionamento assolutamente affidabile. Infatti, è necessario che il frigo mantenga una temperatura costante a garanzia della corretta conservazione dei campioni.

La biobanca è un investimento sul futuro della ricerca: per noi è fondamentale custodire un campione, valutarlo adesso, ma soprattutto utilizzarlo successivamente quando ci serviranno degli studi comparativi e le tecniche saranno ulteriormente progredite.

In che modo l’IZSM si impegna per la biodiversità?

Tutto il mondo scientifico sa con estrema consapevolezza che il grande pregio della Regione Campania è la biodiversità. Questa condizione non è un caso, ma è legata a un fattore fondamentale: il nostro terreno è di origine vulcanica. 34 milioni di anni fa il fenomeno vulcanico dei Campi Flegrei ha provocato eruzioni che in confronto quelle del Vesuvio sono state un gioco da ragazzi. 44 km di colonna di fumo, di cenere e di lapilli si sono sversati nell’aria e si sono depositati sul terreno; nell’arco dei secoli, le successive eruzioni del Vesuvio hanno fatto sì che il nostro territorio fosse punteggiato da diversi componenti ortominerali. La presenza di tutti questi elementi anche di origine vulcanica hanno reso straordinario il nostro terreno.

A questo bisogna aggiungere le nostre condizioni meteoclimatiche e l’incidenza dei raggi solari, su cui il CNR ha svolto un bellissimo studio: dall’insieme di questi fattori trae origine la prelibatezza dei nostri prodotti agricoli. In questa terra pregiatissima, la biodiversità è legata anche al tipo di agricoltura che vi si pratica e che ci regala prodotti eccellenti.

Non tutelare questo patrimonio è come buttare le riserve auree di famiglia. È un obiettivo principale di chi crede, di chi ama la propria terra, di chi la vuole custodire e preservare per le generazioni future. La biodiversità di questa Regione è un patrimonio che va custodito e tutelato ad ogni costo, e noi dell’Istituto Zooprofilattico Sperimentale per il Mezzogiorno ci impegniamo perché questo avvenga.