(Rinnovabili.it) – Dopo il voto favorevole del Parlamento europeo anche il Consiglio ha dato il via libera all’approvazione dell’Accordo di Parigi. Era l’ultimo passaggio formale richiesto alle istituzioni dell’Unione, prima di depositare gli strumenti di ratifica alla sede di New York delle Nazioni Unite il prossimo 7 ottobre. Così anche l’Ue, grande ritardataria nella corsa globale iniziata alla Cop21 lo scorso dicembre, si impegna formalmente a lottare contro i cambiamenti climatici. Proprio grazie alla firma dell’Ue – che pesa per il 12% delle emissioni globali – sono stati raggiunti entrambi i requisiti necessari: almeno 55 Paesi che rappresentino almeno il 55% delle emissioni mondiali. Adesso l’obiettivo, e la scommessa, è tradurre in pratica quello che finora è soltanto un impegno sulla carta: mantenere il riscaldamento globale ben al di sotto dei 2°C, e possibilmente limitarlo a 1,5°C.
Che cosa succede adesso?
Un percorso, quello del patto sul clima siglato nella capitale francese, durato 11 mesi, che sarà idealmente coronato durante l’apertura dei lavori della Cop22, l’assise mondiale sul clima che si terrà a partire dal 7 novembre a Marrakesh, in Marocco. In quella sede si dovrà iniziare a discutere di come implementare l’accordo, quali misure adottare, come verificare passo passo il rispetto degli impegni presi e, soprattutto, decidere tempi e modi degli importanti passaggi intermedi. Infatti l’accordo andrà revisionato in funzione sia degli sforzi del Paesi, sia dei dati più aggiornati sull’andamento del clima.
L’organismo che si farà carico di questo delicatissimo compito è denominato CMA, sigla che sta per “Conference of the Parties serving as the meeting of the Parties to the Paris Agreement”. In pratica si tratta della cabina di regia dell’Accordo di Parigi. Ne fanno parte solo gli Stati che l’hanno ratificato al momento della sua entrata in vigore, vale a dire quei 62 paesi a cui si è aggiunta ieri l’Ue. Tra questi figurano anche i più grandi inquinatori mondiali: Cina, Stati Uniti, India. A loro spetteranno tutte le decisioni politiche per una corretta implementazione dell’accordo, comprese anche eventuali deroghe. In altri termini, sedere al tavolo del CMA significa sia assumersi una grande responsabilità, sia avere voce in capitolo su tutte le future decisioni.
L’Italia ancora in ritardo
Si spiega così la fretta dell’Ue per arrivare alla ratifica: l’assenza di Bruxelles dal CMA avrebbe impedito di avere qualsiasi potere decisionale. Così la soluzione scelta è stata bypassare la sovranità dei singoli Paesi, visto che soltanto Germania, Ungheria, Francia, Austria e Slovacchia avevano già firmato. Nel frattempo, mentre l’Accordo entra in vigore, gli Stati europei che non l’hanno ancora approvato procederanno nei loro Parlamenti nazionali. Tra questi anche l’Italia, che non ha nemmeno calendarizzato il voto. Il ministro Galletti ha fatto sapere che porterà la proposta in CdM la settimana prossima, auspicando poi che il Parlamento approvi l’Accordo “in tempi ragionevoli”.
Certamente questi ritardi sono un grave danno di immagine, per Roma come per l’intero continente, che si sono visti scippare lo scettro della leadership ambientale mondiale conquistato ospitando a Parigi la Cop21 persino dalla Cina, nazione tradizionalmente restia ad impegnarsi per la salvaguardia del clima, che poche settimane fa ha approvato il patto insieme agli Stati Uniti.
Ma l’Accordo nato zoppo è già in crisi
A dispetto dei toni trionfalistici adottati dai politici di tutto il mondo, l’entrata in vigore del patto sul clima non è di per sé garanzia di successo. Da un lato l’Accordo è nato zoppo, con enormi pecche connaturate che non fanno sperare per il meglio . Dall’altro lato, in questi 11 mesi numerosi studi hanno lanciato più volte l’allarme: forse è già troppo tardi per rispettare l’impegno dei 2°C.
Innanzitutto l’Accordo ha solo carattere volontario: in qualsiasi momento ogni Stato può tirarsi indietro e rimangiarsi le sue promesse. Non è previsto nessun meccanismo di sanzione, nessun bilanciamento di sorta che “invogli” una nazione a continuare ad aderire. Poi vige il principio della neutralità climatica: vale a dire che non è prevista alcuna data per il phase out dei combustibili fossili, non si parla di decarbonizzazione o di emissioni zero. Si chiede soltanto ai Paesi membri di raggiungere quanto prima il picco di emissioni.
Altro punto critico sono i risarcimenti climatici per le perdite e i danni irreparabili subiti dai paesi più vulnerabili, che non sono sorretti da alcun vincolo coercitivo: potrebbero restare lettera morta. Così come critico è il punto che riguarda i finanziamenti climatici, un fondo per agevolare il taglio delle emissioni, che non va oltre i 100 mld di dollari e, anche questo, non ha carattere vincolante: i soldi sono stati annunciati, ma nulla garantisce che arriveranno davvero.
Cosa resta fuori dall’Accordo di Parigi
Dal patto sul clima sono poi stati lasciati fuori alcuni capitoli di fondamentale importanza. Sulla deforestazione, ad esempio, non è stato preso alcun impegno forte. Altri capitoli sono da negoziare in separata sede: è il caso ad esempio delle emissioni prodotte dal comparto aereo, che in questi giorni sono in discussione a Montréal. Si parte da una pessima proposta di riforma, che dà il via libera ad un aumento del 700% delle emissioni, usando come foglia di fico il meccanismo del mercato dei crediti di carbonio. Dall’accordo di Montréal si è già sfilato un peso massimo come l’India, e i risultati saranno probabilmente pessimi. Infine, in discussione separatamente è anche il bando degli HFC, gli idrofluorocarburi dal potere climalterante centinaia di volte superiore alla CO2. La svolta potrebbe arrivare proprio durante la Cop22 di Marrakesh.