Le conclusioni della 18a Conferenza dell'Unfccc sul Climate Change nel racconto dei membri della Delegazione italiana
Circa 7.000 i delegati dei 194 Paesi che aderiscono alle Nazioni Unite e circa 6.000 gli osservatori, tra giornalisti ed esponenti delle organizzazioni non governative: questo il pubblico della 18° sessione della Conferenza delle Parti firmatarie la Convenzione sui Cambiamenti Climatici e dell’8° sessione della Conferenza delle Parti firmatarie il Protocollo di Kyoto che si sono svolte a Doha. Due conferenze che sono state, per le Nazioni Unite, un’ulteriore occasione di mostrare al mondo se l’ONU ha davvero la capacità di gestire un tema complesso come quello dei cambiamenti climatici, per l’aumento della temperatura media del pianeta entro i 2°C, rispetto ai livelli preindustriali. Dopo estenuanti discussioni che hanno inchiodato alle sedie i Delegati dei vari Paesi per ore e ore, incluse quelle notturne, sono state prese alcune decisioni che, alcuni osservatori derubricano come “minimali” altri invece salutano come “a new gateway” per obiettivi più ambiziosi: la prosecuzione del Protocollo di Kyoto, la conclusione del gruppo di lavoro sulla “Long-Term Cooperative Action”, istituito a Bali nel 2007, e la definizione del piano di lavoro del gruppo “Ad Hoc sulla Piattaforma di Durban”, nato a Durban nel 2011.
Kyoto
Al Protocollo di Kyoto si è deciso di dare continuità, accordandosi per obiettivi di riduzione delle emissioni dei gas ad effetto serra per il periodo dal 2013 al 2020, il cosiddetto “secondo commitment period”. Il Canada ha deciso di ritirarsi, mentre il Giappone e la Federazione Russa hanno dichiarato di non volersi assumere impegni di riduzione delle emissioni per il secondo periodo; si ricorda che gli Stati Uniti non hanno ratificato il Protocollo. Dando continuità al Protocollo, è stata confermata anche la continuità ai cosiddetti meccanismi flessibili, ovvero il CleanDevelopingMechanism (azioni congiunte tra i Paesi sviluppati e quelli in via di sviluppo), la Joint Implementation(ovvero le azioni congiunte tra i paesi sviluppati e quelli ad economia in via di transizione)e l’emission trading. Tuttavia si è deciso che, solo i Paesi industrializzati che assumeranno obblighi di riduzione per il secondo periodo saranno eleggibili ad acquistare e trasferire certificati di riduzione delle emissioni derivanti dall’uso dei meccanismi flessibili.Una manovra che servirà quindi a dare continuità anche agli investimenti che i Paesi Europei hanno fatto e faranno dal 2013 nei Paesi in via di sviluppo e nei Paesi a economia in transizione nel campo delle rinnovabili, della forestazione e dell’efficienza energetica. Senza contare che la Legislazione europea del 20-20-20 potrà continuare ad essere inserita in un quadro condiviso a livello delle Nazioni Unite.
Long Term Cooperative Action
Il gruppo di lavoro sulla “Long Term Cooperative Action” si è concluso con risultati davvero modesti se confrontati con il mandato derivante dalla Conferenza di Bali, il cosiddetto “Piano di Azione di Bali”. Molte delle tematiche più rilevanti sono state rinviate ai lavori futuri degli organismi sussidiari la Convenzione; in particolare, il gruppo di lavoro per assicurare il finanziamento sul lungo periodo delle azioni di mitigazione e adattamento dei paesi in via di sviluppo è stato prorogato di un anno, fino alla fine del 2013, con lo scopo di individuare meccanismi che possano assicurare la possibilità da parte dei Paesi industrializzati di contribuire, con fondi privati o pubblici, al meccanismo di finanziamento di lungo periodo per un totale di 100 miliardi di euro all’anno entro il 2020.
Il Gruppo Ad Hoc sulla Piattaforma di Durban
Istituito in occasione della COP 17 nel 2011 proprio a Durban, in sud Africa, con il compito di elaborare un Protocollo o altro strumento legale da approvare entro il 2015 e con effetti a partire dal 2020, il gruppo ha il compito di arrivare entro al 2014 ad una bozza di testo negoziale che sia disponibile per la COP21, come da mandato.
Non è possibile negare la difficoltà che la Comunità internazionale ha sperimentato nel gestire la problematica dei cambiamenti climatici a Doha. Lo stesso IntergovernmentalPanel for ClimateChange (IPCC), nel suo rapporto scientifico del 2007, ha affermato che, per limitare l’aumento della temperatura media del pianeta a 2°C, è necessario da una parte che i Paesi industrializzati riducano nel loro insieme, le emissioni del 25-40% entro il 2020 e del 80-90% entro il 2050, e dall’altra parte che i Paesi in via di sviluppo riducano sostanzialmente i loro trend emissivi. Vale a dire: il cosa fare a livello globale è molto chiaro, le difficoltà sorgono quando bisogna decidere il livello di impegno di ciascun Paese, e in questo caso tendono a prevalere gli interessi di parte,che interpretano in maniera strumentale il principio “responsabilità comuni ma differenziate” e pregiudicano il raggiungimento di un accordo appropriato a gestire il cambiamento climatico.
Sarà compito della Comunità scientifica, dunque, aiutare la politica a trovare le migliori soluzioni, chiarendo sempre di più il quadro del funzionamento del sistema clima, riducendo le incertezze delle valutazioni e indicando strumenti di mitigazione delle emissioni a costi sopportabili, aiutando al contempo a identificare e superare le barriere per la loro implementazione. La strada per il raggiungimento dell’obiettivo dei 2°C è ancora aperta.
di N.M. Caminiti e S. La Motta – Esperti ENEA e membri della Delegazione italiana a Doha