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Così la Thailandia sta diventando la nuova discarica dell’occidente

Dopo la chiusura cinese alla spazzatura estera, i rifiuti elettronici e plastici hanno trovato nuovi mercati secondari. Ma illegalità, sfruttamento e rischi sanitari la fanno da padrone

Thailandia
Foto: AFP- Bangkok Post – Chanat Katanyu

 

Un cospicuo numero di imprenditori cinesi sta spostando il bussiness di trattamento rifiuti in altri paesi asiatici, Thailandia in primis

(Rinnovabili.it) – Cosa succede se il più grande mercato al mondo per lo smaltimento di rifiuti dovesse decidere, da un giorno all’altro, di non voler più la spazzatura prodotta fuori dai suoi confini? Una sola parola: caos. Lo stop voluto dalla Cina all’importazione di ben 56 categorie di rifiuti ha gettato l’Occidente nella più profonda confusione. Qui, infatti, finivano fino allo scorso anno ingenti quantità di plastica, carta, alluminio, prodotti elettrici e fibre tessili prodotte dai grandi consumatori mondiali, come Giappone, Stati Uniti ed Unione Europea. La chiusura dei confini cinesi ha prodotto effetti praticamente immediati. Nella sola Europa si stanno accumulando, nei porti e nei magazzini di diverse città, cataste di plastica raccolta con la differenziata e lasciata lì per mancanza di impianti di trattamento o perché non adatta al riciclo. Ma questa sorta di magazzini improvvisati costituisce un rischio, soprattutto a causa della facile infiammabilità degli elementi.

 

Parte del flusso di rifiuti respinto dalla Cina è oggi assorbito da altri mercati asiatici. In questi mesi si sono fatti avanti Paesi come la Cambogia, la Malesia, il Vietnam e l’India, con risultati tuttavia poco rassicuranti. La lassità normativa in materia ambientale rischia di favorire traffici illeciti e una gestione completamente insostenibile per scarti e scorie. Lo dimostra oggi la Thailandia dove le autorità hanno scoperto un scambio, per lo più illegale, di plastica e raee importati dall’estero. La notizia è emersa a fine maggio dopo l’irruzione della polizia in un impianto di riciclo dei rifiuti a Chachoengsao, a est di Bangkok. Sui gestori pende l’accusa di contrabbando di rifiuti e incenerimento degli stessi all’interno della struttura. Lavoratori non formati e retribuiti in nero venivano sfruttati per pochi dollari al mese, costretti a manipolare e bruciare rifiuti pericolosi, esponendo se stessi e l’ambiente circostante a possibili contaminazioni da metalli pesanti.

 

La scoperta ha portato ad un giro di vite su diversi impianti, per un totale di oltre 210mila tonnellate di plastica e raee importati da 35 Paesi esteri. Molti dei gestori dei siti hanno ammesso alla polizia di non aver idea di che tipo di rifiuto avessero fra le mani o di come dovesse essere trattato. E probabilmente non sorprende scoprire che la maggior parte dei proprietari di queste strutture di “riciclaggio” vengano proprio dalla Cina. Con i nuovi divieti in patria, molti imprenditori cinesi hanno dovuto spostare il proprio business nei Paesi vicini. Solo in Thailandia dall’inizio dell’anno a oggi sono stati avviati o presentati progetti per circa un centinaio di strutture di trattamento rifiuti, gestite da cinesi. Il volume di spazzatura estera finito in Thailandia, soprattutto per quanto riguarda i prodotti elettrici ed elettronici, sta costringendo il governo a seguire le orme della Repubblica popolare, cercando di frenare i traffici. Secondo quanto riferisce la Reuters, i doganieri thailandesi stanno attualmente respingendo 20 container di rifiuti elettronici al giorno in entrata nei porti nazionali, e nei prossimi due mesi il governo dovrebbe approvare una legge che vieti l’import per plastica e raee.