Il 40% delle fibre dei tessuti sintetici non è trattenuto dagli impianti di trattamento e finisce nell'ambiente. Ma dire basta a questo inquinamento invisibile è possibile e Marevivo spiega come
(Rinnovabili.it) – Plastica, mare, inquinamento. Design, responsabilità, innovazione. Dalle microplastiche alle microfibre. Non solo le bottiglie e le stoviglie di plastica, ma anche le fibre tessili hanno un ruolo preminente nell’inquinamento da plastica che soffoca il mare. Secondo i dati del CNR, in 60 anni la produzione di plastica è passata da 0,5 mln di tonnellate l’anno a 330 mln. Marevivo, che da tempo conduce un’instancabile battaglia in difesa del mare, ha coinvolto l’Accademia di Costume&Moda – una delle migliori scuole di moda del mondo, che è già diventata plastic free – nella campagna di sensibilizzazione #Stopmicrofibre. Alcuni pensano che la plastica abbia invaso una zona delimitata, ma al contrario non c’è mare che ne sia privo, e non solo: tracce di plastica sono state trovate perfino nei ghiacciai montani.
La scelta di Marevivo non è stata casuale. L’Accademia di Costume&Moda prepara gli stilisti di domani, formare alla consapevolezza e all’impatto che il proprio lavoro può avere sull’ambiente è una responsabilità forte. Progettare con una visione sostenibile significa trovare nuove soluzioni per produrre materiali e oggetti belli, dal design elegante e ricercato, che strizzano l’occhio all’economia circolare e non danneggiano l’ambiente: un Made in Italy che ama e rispetta l’ambiente.
All’Accademia di Costume&Moda partirà a febbraio 2020 il nuovo Master in Fabrics Innovation Design per formare figure professionali con conoscenze culturali e pratiche su fibre, filati e tessuti, e competenze nella realizzazione dei tessuti secondo le tecnologie più innovative. A settembre, inoltre, gli allievi dell’Accademia faranno volontariato sulle spiagge con Marevivo: la stilista Marta Ferri ha rivolto loro un appello alla mobilitazione perché «non è più possibile tirarsi indietro, non si può essere indifferenti a un tema così rilevante».
Raffaella Giugni, membro del comitato direttivo di Marevivo, ha dato un’idea in cifre che spiega la ragione di #Stopmicrofibre: un lavaggio in lavatrice di 5 kg di abiti sintetici rilascia dai 6 ai 17 milioni di particelle di microfibre inferiori a 5 mm che – inquinando il mare perché non trattenute dai sistemi di filtraggio – vengono ingerite dai pesci ed entrano nella catena alimentare. In parole povere, la plastica arriva anche sulle nostre tavole: Francesco Regoli, vice direttore del Dipartimento di Scienze della Vita e dell’Ambiente dell’Università Politecnica delle Marche ha denunciato la presenza di microplastiche – anche di origine tessile – nella maggior parte dei pesci analizzati. Non sono ancora disponibili dati sulla tossicità per l’uomo, ma certo mangiare plastica non sembrerebbe esattamente salutare.
Secondo uno studio della Ellen Mac Arthur Foundation, il lavaggio degli abiti ogni anno scarica in mare mezzo milione di tonnellate di microfibre, una quantità enorme che equivale a 50 miliardi di bottiglie di plastica. Il principale imputato è l’acrilico, che inquina circa cinque volte di più del misto cotone-poliestere.
Da dove cominciare e con quale obiettivo? Marevivo ha iniziato la campagna #Stopmicrofibre coinvolgendo chi forma gli stilisti; si batte perché sia resa obbligatoria l’etichettatura dei capi dove sia specificato se c’è più del 50% di sintetico (così i consumatori sapranno cosa acquistano), chiede la progettazione di sistemi di filtraggio più efficaci per le lavatrici e la produzione di tessuti che rilascino meno microfibre. E il consumatore? Dovrebbe comprare di meno preferendo prodotti di qualità migliore (non dimentichiamo però che la questione prezzo è dirimente, e in questo la “fast fashion” – ovvero la moda a prezzi stracciati – è imbattibile), usare detersivi biologici e biodegradabili, leggere le etichette dei vestiti e preferire quelli in fibre naturali, fare attenzione a dove sono stati prodotti i capi di abbigliamento (anche se purtroppo è raro trovare un capo completamente Made in Italy), acquistare possibilmente una lavatrice dotata di filtro per le microplastiche. Una soluzione alternativa è usare il sacchetto Guppyfriend che cattura le microplastiche rilasciate durante il lavaggio, come suggerisce Patagonia, azienda modello per la corporate responsibility intesa sia come rispetto delle condizioni di lavoro che come riduzione del proprio impatto ambientale.
Tra le fibre naturali, il lino sembra quella ideale per rispondere a #Stopmicrofibre. Pierluigi Fusco Girard, amministratore delegato del Linificio e Canapificio Nazionale-Marzotto Lab, lo ha definito sostenibile e polifunzionale. Non è inquinante perché non richiede defolianti né pesticidi, la sua coltivazione non ha bisogno di acqua, essendo sufficiente quella piovana. In più, le piantagioni di lino assorbono ogni anno 250mila tonnellate di CO2. Il lino è una fibra campione di economia circolare: è 100% riciclabile, lo scarto del processo produttivo è riutilizzato come materia prima seconda, è 100% biodegradabile. Si presta agli impieghi più diversi, è antistatico, anallergico, resistente. In che modo il lino può aiutare il mare? Marzotto sta studiando dei prototipi di reti da pesca in lino, come pure la produzione di reti per la coltivazione e la vendita dei mitili. Le reti in lino si potrebbero impiegare anche per confezionare i sacchetti per agrumi e patate.
Un’altra soluzione interessante viene dalla lana, spiega Giovanni Schneider, amministratore delegato del Gruppo Schneider, leader nella lavorazione e nella commercializzazione di fibre tessili naturali pregiate. La lana è naturale, biodegradabile, traspirante, rinnovabile, innovativa e non si stropiccia.
Quindi esistono alternative possibili alle fibre sintetiche? Si stanno testando varie sostanze vegetali, tra cui ananas e foglie di tabacco. Un esempio per tutti è Orange Fiber, che ha sperimentato e brevettato il primo tessuto al mondo derivato dal pastazzo di agrumi (ovvero il residuo umido della spremitura, destinato a diventare un rifiuto), trasformando uno scarto in un materiale tessile di alta qualità al punto che Ferragamo l’ha utilizzato per una collezione nel 2017 e quest’anno H&M ha realizzato con Orange Fiber un top per la collezione premium, realizzata con materiali riciclati e sostenibili.
Il progetto “Sustainable Thinking” è un’iniziativa globale nata dalla ricerca che Ferragamo ha sempre svolto sui materiali naturali, di riciclo e innovativi e che si traduce in una nuova visione di futuro. Il punto di partenza è la convinzione che ogni materiale, anche il più povero, può essere usato in modo creativo. Tra i progetti satellite di “Sustainable Thinking” ricordiamo il contest per giovani designer per creare una capsule collection con materiali sostenibili e innovativi. Il progetto vincitore, “42 Degrees” di Luciano Dimotta e Flavia Corridori, è arrivato nei negozi nell’aprile 2019. C’è anche un contest rivolto alle scuole, “Young Talents for Sustainable Thinking” coordinato dalla Fondazione Ferragamo, per creare prodotti con i materiali di scarto dell’azienda.
Un marchio che fa andare di pari passo profitto e responsabilità sociale è Levi’s. Uno degli impegni del brand è il risparmio dell’acqua nella finitura del denim: la tecnologia waterless permette di usarne fino all’88% in meno (20 milioni di litri in un anno). Per il 2020 Levi’s prevede di impiegare cotone coltivato in modo sostenibile (ovvero con meno acqua e meno prodotti chimici). Ma l’obiettivo, grazie all’innovazione, è arrivare a creare un prodotto totalmente riciclabile. Nei capi Levi’s la targhetta spiega al consumatore come trattare i jeans perché durino più a lungo, esortandolo a regalarli quando non si vogliono più indossare. Nei negozi monomarca, inoltre, il servizio di sartoria ripara o personalizza i vecchi capi a cui magari siamo affezionati per prolungare la loro vita anziché acquistarne altri. Perché «i migliori jeans per il Pianeta sono quelli che non devi produrre».
Le aziende hanno capito che la sostenibilità è una chiave per entrare nelle preferenze dei consumatori, perché il mercato premia le azioni responsabili: non solo marketing, ma responsabilità sociale. Responsabilità che riguarda l’azienda (ad esempio in termini di visione strategica, di innovazione e di approccio etico), i suoi prodotti (materiali utilizzati, processi di lavorazione, packaging) e i suoi valori (tracciabilità, risparmio di acqua, energia e CO2).
È iniziata una «rivoluzione industriale che si gioca sull’economia circolare. Un’evoluzione che ci impone di modificare il modo in cui produciamo e consumiamo» ha detto Lupo Lanzara, vice presidente dell’Accademia di Costume&Moda. Si cerca di creare prodotti secondo valori che fino a poco tempo fa non c’erano: innovazione e design sono una caratteristica del Made in Italy, oggi il plus è la sostenibilità.
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