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“Speriamo che sia riciclabile”: tutti i danni del wishcycling

Così le imprese hanno spinto i consumatori volterosi al wishcycling, cioè a differenziare rifiuti che in realtà non sono recuperabili

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Storia del wishcycling, un comportamento sbagliato (anche se in buona fede)

Se non sei sicuro che sia riciclabile, meglio gettarlo nel cestino del non recuperabile. Altrimenti il rischio è cadere nel tranello del wishcycling, quella tendenza a gettare nei bidoni del riciclo materiali che invece non si possono recuperare. Lo facciamo perché pensiamo – per meglio dire speriamo – che quegli oggetti siano riciclabili, dopotutto. Ma questo rallenta le operazioni degli impianti di separazione e riciclaggio, aumenta i costi e gonfia le statistiche.

La storia del termine wishcycling inizia nel 2015, secondo le prove raccolte dalla sociologa Rebecca Altman, quando l’industria ha coniato questo concetto per definire quei consumatori che, pur molto sensibili, erano poco educati alla raccolta differenziata e sceglievano di gettare nei bidoni del riciclo materiali che, in realtà, riciclabili non erano. Per un meccanismo psicologico, infatti, le persone scelgono di credere che se differenziano un oggetto, diventerà un nuovo prodotto piuttosto che essere sepolto in una discarica o bruciato.

Questo fenomeno si è acuito negli anni, man mano che le campagne a favore del riciclo da parte di governi, aziende e ambientalisti si sono intensificate. Sembra che il wishcycling affligga particolarmente le materie plastiche che riportano i codici di identificazione del materiale all’interno dell’ormai celebre triangolo composto dalle tre “frecce che si rincorrono”. Il problema è proprio qui: spesso questo segno ci induce a credere che l’articolo sia riciclabile, mentre invece è falso. Solo polietilene, PET e polietilene ad alta densità (HDPE) sono relativamente facili da riciclare e hanno un mercato della materia prima seconda. Gli altri richiedono procedimenti molto più complessi, quindi spesso finiscono in discarica o nell’inceneritore.

Di fronte a questo inganno, il wishcycling è dunque tutta colpa nostra? Non è pensabile che i consumatori conoscano in dettaglio i processi di riciclo, la struttura industriale e le dinamiche del mercato. Per questo il dibattito sta cambiando, e inizia ad affibbiare anche al settore privato le giuste responsabilità di questa contaminazione del flusso di rifiuti con materiale che non è effettivamente riciclabile.

La crisi globale dei rifiuti, infatti, non è imputabile ai consumatori che non lavano i barattoli di maionese. I maggiori driver sono globali e includono la sovrapproduzione di imballaggi, gli incentivi al commercio internazionale dei rifiuti e la mancanza di politiche di riciclo standardizzate, investimenti pubblici e normative stringenti. Questo ha permesso alle imprese di “giocare con i simboli” e indurre le persone a pensare che “forse queste tre freccette disposte a triangolo indicano che il prodotto è riciclabile”.

Nel frattempo, grandi aziende di gestione dei rifiuti, città e paesi hanno lanciato campagne educative contro il wishcycling, seguendo lo slogan: “Se hai un dubbio, buttalo via”. Il tentativo è far sì che i consumatori mettano nel bidone della plastica solo materiale che può veramente essere riciclato. Anche se può far male alle statistiche, questo bagno di realtà aiuterebbe a ridurre i costi per gli impianti e le amministrazioni locali. Per fare ulteriori progressi, però, i governi devono imporre alle imprese di progettare packaging pienamente riciclabili e riutilizzabili, tenendo conto di tutto il ciclo di vita dei prodotti, riducendo la produzione di imballaggi monouso e investendo pesantemente nelle infrastrutture del riciclo.