"Per risolvere questa crisi ci si affida prioritariamente al rinnovamento tecnologico. Non si vuole vedere l’intreccio drammatico, che la pandemia ha fatto emergere, tra crisi ecologica e crisi sociale e culturale, né i ritardi e le disparità che segnano la società italiana", scrive Vittorio Cogliati Dezza.
di Vittorio Cogliati Dezza
Le intenzioni del #NextGenerationEU sono chiare: sgombrare le macerie provocate dal Covid-19 promuovendo uno sviluppo ambientalmente e socialmente avanzato. Il riferimento al Piano Marshall non è del tutto improprio. A condizione che si capisca di quali macerie parliamo.
Il Piano Marshall servì a sgombrare le macerie fisiche, provocate da quell’ideologia nazi-fascista che era stata già sconfitta. Oggi le macerie non sono fisiche ma di visione: il Covid ha mandato in pezzi la visione ideologica che ha guidato la globalizzazione degli ultimi 30 anni. Visione dominata dal diktat della massimizzazione del profitto, dalla privatizzazione della conoscenza, dal rifiuto della lungimiranza (“capire il futuro per cambiare il presente”) che ha fatto trovare il mondo globalizzato del tutto impreparato di fronte alla pandemia, nonostante avesse a disposizione il più potente patrimonio tecnologico e di conoscenze mai posseduto dal genere umano, perché si è scelto di non investire nella prevenzione dei rischi annunciati (come quello pandemico e quello climatico). Gli effetti di queste scelte sono sotto i nostri occhi: danni sociali ed economici ancora imponderabili, insieme all’aumento esponenziale delle disuguaglianze.
Il #NextGenerationEU cerca di rimettere in piedi lo sviluppo provando a guardare lontano, alle prossime generazioni, e lo fa dettando agli Stati membri le condizioni per accedere ai fondi messi a disposizione. Tre i pilastri fondamentali: green, digitale e coesione sociale, proposti non come canne d’organo a sé stanti, ma come un complesso armonico che produce risultati coerenti sul piano dell’innovazione di produzione e di consumo, intrecciata con una maggior giustizia sociale e ambientale, dentro un’intelaiatura istituzionale rinnovata dalle riforme necessarie.
Alla base della proposta europea c’è la consapevolezza che il Covid nasce per spillover, provocato dall’eccesso di vicinanza tra ecosistemi naturali selvatici ed ecosistemi antropici (come gli allevamenti intensivi) con conseguente “invasione di campo” di questi ultimi a danno dei primi, e che la sua diffusione è stata facilitata dalle fragilità sociali di questo modello di sviluppo, di cui il disinvestimento nei sistemi sanitari rappresenta il sintomo più esacerbato.
Il #NextGenerationEU mira a frenare la crisi ecologica per contrastare la crisi sociale. Le innovazioni tecnologiche, nei sistemi di produzione dell’energia e delle merci, per quanto indispensabili, da sole non sono in grado di rispondere alla sfida, perché debbono interagire con altrettanto importanti investimenti sociali: cultura, istruzione e formazione, sanità nella prospettiva del contrasto alle disuguaglianze. In altre parole, quello che l’Unione Europea ci sta dicendo è che non c’è green economy senza green society, intessuta di consapevolezza e responsabilizzazione.
Il nucleo più innovativo della proposta europea è nell’interdipendenza tra queste dimensioni.
Ed è proprio qui il principale punto di debolezza del Piano italiano.
Nell’architettura del Piano il green è ampiamente rappresentato (40,8% delle risorse) e più o meno tutti i settori hanno il loro spazio: energia, riqualificazione edilizia, periferie, economia circolare, risorsa idrica, dissesto, depurazione, mobilità, agricoltura, infrastrutture ferroviarie e metropolitane, TPL green. Ed è condivisibile l’analisi degli scenari in cui si inseriscono gli interventi, dalla lotta al cambiamento climatico alla messa in sicurezza del territorio, dal passaggio del trasporto da gomma a ferro, soprattutto per le merci, alla rigenerazione urbana, Ma …. il diavolo si nasconde nei dettagli!
Il segnale preoccupante ci viene dal disequilibrio di investimento tra le diverse Missioni e dentro ogni Missione. Le risorse sono per 3/4 (150,7 miliardi) allocate su digitalizzazione, rivoluzione verde e infrastrutture. All’infrastrutturazione sociale è riservato solo 1/4 delle risorse (45,3 miliardi), con cui si punta a limare alcune delle contraddizioni più stridenti. Prendiamo ad esempio la questione dei giovani. Nel Piano è affrontata solo sul versante della formazione e dell’avvio al lavoro, nulla sul garantire spazi e risorse per consentire ai giovani di costruirsi un loro progetto di vita, una casa, una famiglia, un’impresa, un lavoro duraturo e di qualità, l’accesso permanente alla cultura. Per non parlare dei 9 miliardi per la sanità e dei circa 4 miliardi per l’istruzione: le cenerentole del Piano.
Per risolvere questa crisi ci si affida prioritariamente al rinnovamento tecnologico. Non si vuole vedere l’intreccio drammatico, che la pandemia ha fatto emergere, tra crisi ecologica e crisi sociale e culturale, né i ritardi e le disparità che segnano la società italiana. L’investimento sociale (disuguaglianze di istruzione, di genere, generazionali, territoriali, oltre che di reddito) è visto come un costo, piuttosto che un investimento. L’approccio tecnocratico al green impedisce di vedere nel contrasto alla crisi ecologica la via maestra per superare anche la crisi sociale.
Una filosofia che emerge con chiarezza se si entra nel merito delle misure proposte per il green. Per l’efficientamento delle abitazioni l’intervento più consistente (si parla di 21 miliardi – in assoluto il più alto di tutto il Piano) è affidato al superbonus del 110%, ma nel Piano non si legge nessun riferimento alla necessità di mettere in condizione le fasce più fragili della popolazione di utilizzare le nuove possibilità di cessione del credito, per le quali servirebbe un coinvolgimento di Regioni e Comuni per mettere a punto piani di informazione e accompagnamento soprattutto per la riqualificazione delle periferie e per coinvolgere gli enti di Edilizia Residenziale Pubblica. Per la decarbonizzazione sembra che ci si affidi al progetto della cattura e stoccaggio della CO2 (impossibile da realizzare nei tempi richiesti dal #NextGenerationEU) e ad un non meglio specificato progetto “Riduzione della CO2 mediante trattamento e recupero degli effluvi”.
Lo stesso vale per i capitoli dedicati alla mobilità sostenibile, dove si intrecciano indicazioni sulla green mobility, le ciclovie, i green ports, accanto ad opere ferroviarie in cui la parte del leone la fa l’alta velocità, comprese opere già finanziate dall’Unione Europea, come la Torino-Lione. Poco o nulla per i pendolari, il trasporto regionale, l’avvicinamento dei servizi alle periferie.
A questa “inadempienza” del Piano italiano si aggiungono altre due “inadempienze”, che confermano il rischio di non riuscire a rispondere agli obiettivi del #NextGenerationEU.
La prima riguarda il controllo pubblico con azioni di open-government ed il coinvolgimento partecipativo dei soggetti sociali. Traguardo difficile da perseguire se nelle varie misure proposte manca una individuazione precisa, misurabile e quantificabile, degli obiettivi che si vogliono raggiungere, del problema che si vuole aggredire o sviluppare e con quali azioni, da cui ci si aspetta un certo impatto. Il confronto con il parallelo Piano Francese, consultabile da chiunque sul web dal 3 settembre 2020, è impietoso. Qui le misure sono organizzate per macro temi (Ecologia, Competitività, ecc.) e ogni misura strutturata in: problema, descrizione della misura, esempi di progetti, impatti (con indicatori), eventuali territori beneficiari, entità del finanziamento, tempi dell’attivazione.
La seconda riguarda le riforme, oltre al capitolo dedicato al sistema giudiziario, si insiste molto su semplificazioni e digitalizzazione della Pubblica Amministrazione, e molti i richiami a piani vari (PNIEC, inquinamento atmosferico, ecc.) che avrebbero dovuto già essere in via di realizzazione. La rinuncia a coinvolgere la PA in un processo di rinnovamento sulle competenze necessarie, sull’inserimento dei giovani, sul recupero dei tagli al personale, ci segnala un problema: il Piano viene visto come un intervento straordinario e non un viatico verso una “nuova ordinarietà” (si veda a questo proposito la campagna “Se la PA non è pronta” ).
Non basta una giusta innovazione tecnologica, per quanto indispensabile, per essere più green, perché “green” vuol dire oggi essere più resilienti, e la resilienza è una conquista sociale e culturale, grazie alla quale i nostri sistemi economici e sociali diventeranno capaci di rispondere all’intreccio tra crisi ecologica e crisi sociale. In discontinuità con il recente passato. L’alternativa è un paese “come prima, solo un po’ meglio di prima”.
Vittorio Cogliati Dezza – Coordinamento Forum Disuguaglianze e Diversità