Nel testo manca un riferimento all’eliminazione graduale di tutti i combustibili fossili e un impegno a raggiungere il picco di emissioni non più tardi del 2025. Il Programma di lavoro sulla mitigazione contiene solo barriere a un aumento dell’ambizione climatica. Che rendono quasi inapplicabili le decisioni prese l’anno scorso alla COP26
Cosa ha deciso il Piano di attuazione di Sharm sul capitolo mitigazione?
(Rinnovabili.it) – Il prezzo pagato per avere un accordo su perdite e danni alla COP27 è altissimo: il Piano di attuazione di Sharm non contiene nessun passo avanti sul fronte della mitigazione, cioè della riduzione delle emissioni per limitare l’impatto del climate change.
Un controsenso. I loss and damage esistono perché non abbiamo fatto abbastanza per tagliare i gas serra e sul fronte dell’adattamento. Continuare a non fare nulla significa soltanto mettere le basi per un impatto della crisi climatica ancora più devastante. E quindi far crescere il prezzo – umano, sociale, economico – delle perdite e danni.
In questo secondo approfondimento sul vertice di Sharm, dopo quello dedicato all’accordo storico su perdite e danni, vediamo nel dettaglio cosa prevede in ambito di mitigazione l’accordo finale raggiunto nelle prime ore di domenica 20 novembre alla COP27.
Fossili? Quali fossili?
Ancora una volta, il processo negoziale sul clima iniziato 30 anni fa non riesce a scrivere, nero su bianco, la parola “combustibili fossili”. La COP26 di Glasgow su questo aspetto aveva almeno fatto un passo in avanti citando finalmente il carbone e stabilendo che l’uso di questa fonte – la più inquinante delle fossili – va perlomeno “ridotto” (phase down). Alla COP27 si è fatto fatica persino a mantenere questo punto nell’accordo finale.
Il testo del Piano di attuazione di Sharm, infatti, non fa altro che ripetere la stessa formulazione usata 12 mesi fa in Scozia. Restano fuori le due richieste avanzate a gran voce da decine e decine di paesi: un riferimento alla cancellazione graduale (phase out) di tutti i combustibili fossili e l’impegno a raggiungere il picco di emissioni non più tardi del 2025.
Il primo punto raccoglierebbe il consenso addirittura di 80 paesi, se c’è da credere a quanto dichiarato durante la plenaria finale da Frans Timmermans, il vice-presidente della Commissione UE con delega al clima che ha negoziato per i Ventisette. Il secondo è un punto che la scienza del clima dichiara imprescindibile se si vuole sperare di tenere il riscaldamento globale sotto gli 1,5°C.
L’anno scorso era stata l’India, proprio all’ultimo minuto, a indebolire l’accordo prolungando la vita al carbone. Quest’anno a frenare sono stati Arabia Saudita, Russia e Iran. Contestando parti diverse dell’accordo, rimettendo in discussione parti già consolidate, in un tira e molla che ha prolungato i negoziati di molte ore. E alla fine l’hanno spuntata loro. Timmermans aveva minacciato di far fallire la conferenza senza una parte migliore, più ambiziosa, sul taglio delle emissioni. Ma all’ultimo secondo l’UE ha scelto di non far affondare anche lo storico accordo su perdite e danni (Timmermans ha parlato di “dilemma morale”).
Sussidi e “basse emissioni”
Il Piano di attuazione di Sharm, quindi, al punto 28 non fa che ribadire – senza rafforzare – la richiesta di “accelerare gli sforzi per la riduzione del carbone senza tecnologie di abbattimento delle emissioni” (unabated) e “per l’eliminazione dei sussidi inefficienti per i combustibili fossili”. Sui sussidi si è sfiorata una caporetto imprevista: nelle bozze del testo finale era spuntata una seconda opzione a fianco del phase out: la “razionalizzazione”. Chiaramente, o cancelli i sussidi o li “razionalizzi”. Qualsiasi cosa significhi razionalizzare, infatti, si traduce nel mantenerli, anche se ridimensionati. Insomma, è stato un tentativo di trasformare il phase out in un phase down mascherato.
Ancora più complicato è stato conservare la (già scarsa) ambizione consolidata con il Patto di Glasgow sul fronte della transizione energetica. Nella giornata extra di negoziati, la COP27 di Sharm ha visto un vero assalto al breve capitolo Energia. Qualcuno (l’Iran sicuramente, insieme ad altri paesi di cui non si conosce con certezza l’identità) ha minacciato di bocciare tutto l’accordo se non veniva cancellato o riscritto, anche se quella parte di testo era già considerata definitiva da molte ore.
Molto rumore finalizzato, in realtà, ad inserire due parole: “low-emission”, a basse emissioni. Dove? Ogni volta che il testo cita le energie rinnovabili. Come una opzione di pari livello e dignità per realizzare un necessario taglio delle emissioni che l’accordo definisce “immediato, profondo, rapido e sostenuto”. Una modifica che permetterà a chiunque di affermare di star facendo abbastanza per limitare i gas serra solo perché costruisce gasdotti hydrogen-ready ma usa ancora il gas fossile, si dota di tecnologie per l’abbattimento delle emissioni (CCS), o altre azioni simili, senza però modificare davvero la struttura economica, produttiva ed energetica del paese. In pratica, l’ennesimo ritardo sulla strada della decarbonizzazione. Che fa sopravvivere più a lungo le fossili.
Il Piano di attuazione di Sharm chiude due occhi sugli NDC
C’è poi un altro capitolo scottante, quello dei contributi nazionali volontari (NDC). La COP26 aveva accelerato il processo di aggiornamento degli NDC rispetto a quanto stabilito dal Paris agreement. Non era riuscita a ottenere abbastanza ambizione nel 2021, ma aveva messo in piedi un meccanismo che spingeva gli stati a presentare piani nazionali più ambiziosi ogni pochi anni, fino al 2030. Il Piano di attuazione di Sharm, qui, non attua un bel niente: disfa quel poco che si era ottenuto.
Se da un lato, al punto 15, l’accordo riconosce che “limitare il riscaldamento globale a 1,5°C richiede riduzioni rapide, profonde e sostenute delle emissioni globali di gas serra del 43% entro il 2030 rispetto al livello del 2019”, nei punti successivi (17-29) crea nuove barriere sul percorso delineato alla COP26. Lo fa senza scardinare l’esistente, ma solo – come in altri punti dell’accordo si è provato a fare – aggiungendo (o non aggiungendo) poche parole al testo. Che permettono interpretazioni più larghe, allargano i margini di ambiguità, lasciano spazi di manovra più grandi.
Non ci sono riferimenti a Glasgow, ad esempio, ma solo all’accordo di Parigi. Quindi a una tempistica di aggiornamento degli NDC più lenta. Anche se gli obiettivi restano gli stessi, il modo in cui si cammina in quella direzione fa la differenza. Non si usa un linguaggio più duro per censurare i paesi che non hanno rispettato l’impegno assunto alla COP26, e di fatto si lancia un segnale di tolleranza quando, al contrario, servirebbe l’opposto.
Da Sharm escono poi le linee guida fondamentali per il Programma di lavoro per la mitigazione istituito l’anno prima a Glasgow, che proseguirà fino al 2026. E anche qui non solo non si procede avanti, ma si resta fermi innestando la retromarcia. Al punto 2 del documento si decide che “i risultati del programma di lavoro saranno non prescrittivi, non punitivi, facilitativi” e che “non imporranno nuovi obiettivi o traguardi”. Tradotto: se ne parli pure, ma che non ci siano decisioni vincolanti né si aumenti l’ambizione. Anche questo un controsenso: la ratio del programma stesso è di alzare il tasso di riduzione dei gas serra per raggiungere i target al 2030 ai quali il mondo è tutt’altro che allineato.
Il gap di emissioni al 2030 resta larghissimo e il Piano di attuazione di Sharm non aiuta a ridurlo, anzi dà nuovi modi ai paesi ritardatari di tergiversare e farla franca. L’anno scorso, dopo la COP26, il segretario generale dell’Onu Guterres aveva dichiarato che l’obiettivo 1,5°C era ancora vivo ma aveva un battito molto debole. Quest’anno ha dichiarato che, senza nuovi sforzi per la mitigazione, gli 1,5°C sono finiti al pronto soccorso. Sta finendo il tempo a disposizione e stanno finendo anche le metafore mediche.
(lm)