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Che anno sarà il 2021 per i negoziati sul clima? Parla Federico Brocchieri

Si apre il decennio decisivo per il clima. Cosa ci dobbiamo aspettare dai prossimi appuntamenti negoziali, a partire dalla pre-COP di Milano? Ne parliamo con l’autore del libro ‘I negoziati sul clima’, uscito da pochi giorni per i tipi di Edizioni Ambiente

Negoziati sul clima
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La strada verso la COP26 vede l’Italia protagonista dei prossimi negoziati sul clima

di Lorenzo Marinone

(Rinnovabili.it) – Il 2020 è stato l’anno in cui l’ambizione climatica ha visto un’accelerazione quasi senza precedenti, tanto da incastonare al centro delle politiche un obiettivo come la neutralità climatica. Ma al tempo stesso è stato l’anno della pandemia di coronavirus e del rinvio della COP26, con il processo negoziale che si è preso una pausa forzata. Le promesse ci sono, ma devono ancora essere messe nero su bianco e contribuire a far funzionare davvero l’accordo di Parigi.

Per fare il punto sul percorso verso la COP26 di Glasgow e i prossimi passaggi chiave per le politiche climatiche globali, Rinnovabili.it si è rivolto a Federico Brocchieri, autore de I negoziati sul clima. Storie, dinamiche e futuro degli accordi sul cambiamento climatico (Edizioni Ambiente).

Molti dicono che questo sarà il decennio decisivo per il clima. E’ d’accordo?

Sì. La scienza ha indicato in modo chiaro, ad esempio con il Rapporto Speciale sul Riscaldamento Globale di 1,5°C dell’IPCC, uscito nel 2018, che è essenziale che nei prossimi 10 anni siano fatte delle riduzioni delle emissioni che riguardino tutti i paesi, e in modo drastico e rapido.

Ovviamente dopo il 2030 sarà necessario fare azioni ulteriori. Ma personalmente penso che se falliamo in questi 10 anni, cioè se l’ambizione resta troppo bassa, allora dopo rimediare diventa difficile. Qui i negoziati sul clima hanno un ruolo, anche se non si gioca tutto lì visto che i singoli paesi fissano anche degli obiettivi nazionali.

Fissare obiettivi al 2050 è semplice, fare piani ambiziosi al 2030 costa tanto politicamente: come se ne esce?

Il 2050 è un orizzonte che sembra lontano e magari non se ne percepisce sempre il peso in modo adeguato. Ma il meccanismo degli NDC (i Contributi determinati su base nazionale) è strutturato bene: ogni 5 anni i paesi devono aggiornare o rinnovare i propri contributi. Questa ciclicità aiuta a rettificare l’ambizione con tempistiche molto vicine a quelle politiche.

Nel libro, parlando della COP21, scrive che “una singola conferenza non può essere giudicata in maniera avulsa dal contesto in cui si colloca: il processo negoziale va inteso come un percorso, del quale le COP e i negoziati intermedi costituiscono numerose tappe”. Da poco si è tenuto il Climate Ambition Summit: come ne valuta l’esito?

Il Summit ha rappresentato un appuntamento per celebrare i cinque anni dall’adozione dell’Accordo di Parigi, ed è stata inoltre un’occasione per rilanciare dal punto di vista politico i temi al centro dell’azione climatica. Naturalmente si è tenuto in un formato inusuale per le circostanze attuali, la pandemia. Il negoziato invece proseguirà con le prossime conferenze UNFCCC, al fine di completare le disposizioni attuative dell’Accordo di Parigi entro la COP26. 

In questo senso, durante la pandemia la macchina negoziale non è rimasta del tutto ferma. Ci sono stati contatti informali, utili per tenere viva l’attenzione sul tema, ci si è mossi molto a livello tecnico. Quest’anno doveva essere quello dell’ambizione sul clima. Poi ovviamente è stato dominato dall’emergenza sanitaria. Il prossimo anno saremo chiamati a recuperare gli appuntamenti posticipati.

Che temi saranno al centro della pre-COP di Milano di ottobre 2021?

L’agenda non è stata ancora finalizzata. Di solito, il ruolo della pre-COP è di facilitare un accordo di alto livello sulle questioni più complesse dal punto di vista politico. Tra i temi che potrebbero essere in cima alla lista ci sono questioni molto importanti, con implicazioni a livello tecnico. Tra cui, ad esempio, gli elementi da concludere sul Rulebook dell’accordo di Parigi. Ma anche i temi che riguardano l’articolo 6, quindi i mercati internazionali del carbonio. E le tematiche di trasparenza. Tutti temi importanti per la finalizzazione dell’accordo di Parigi.

Per la governance globale del clima, la COP è ancora uno strumento valido?

Abbiamo bisogno di questo processo, e di una cornice multilaterale come quella fornita dall’UNFCCC. La questione è semplice: il cambiamento climatico è un problema di natura globale. Non è possibile ignorare questo fatto, né tecnicamente né politicamente. Si parla in modo rilevante di energia quando parliamo di emissioni: è anche una questione geopolitica quindi.

E ancora: è impossibile trovare una soluzione a questa sfida senza un processo che coinvolge tutti gli attori. Dai maggiori emettitori attuali e quelli storici. Inclusi quei paesi che subiscono di più le conseguenze del cambiamento climatico. Solo così si può parlare anche di misure di mitigazione e di adattamento, di capacity building. In questo modo siamo in grado di arrivare a soluzioni giuste, condivise e sufficienti in rapporto a quanto ci dice la scienza.

Ci sarà un ‘effetto Biden’ sull’approccio degli Stati Uniti al processo dei negoziati sul clima?

Personalmente, mi aspetto che Biden dia innanzitutto seguito alla promessa di riportare gli Stati Uniti nell’accordo di Parigi nel giorno del suo insediamento. Così torneranno a partecipare alle sessioni negoziali dedicate all’accordo. Il rinvio della COP26 paradossalmente offre un’opportunità, con la possibilità degli USA di giocare un ruolo più attivo in tale appuntamento in virtù della nuova Presidenza. Poi mi aspetto che presentino un nuovo impegno sul clima al rialzo, e almeno con orizzonte 2030. Questo potrebbe aiutare sia in termini quantitativi (in termini di riduzione globale delle emissioni), sia per ricreare il clima di fiducia tra le parti. Questo poi può generare un effetto domino, per cui altri paesi si sentono incentivati a fare di più. Gli USA possono fare molto per il livello globale di ambizione climatica.  

E l’apporto della Cina, dopo l’annuncio dei nuovi obiettivi di neutralità climatica al 2060?

Da Pechino, mi aspetto un ruolo importante nel facilitare il raggiungimento di accordi più ambiziosi tra tutti i paesi. Un negoziato si chiude o con un buon accordo, o con un cattivo accordo, o senza accordo. Quando non c’è convergenza tra i paesi, di solito succede questo: ci si chiede se preferire un accordo al ribasso oppure se rimandare tutto al prossimo appuntamento. In questo senso, più paesi collaborano e danno una spinta decisiva, più è facile trovare accordo che soddisfi tutti e abbia livelli di ambizione elevati.

Qual è il contributo che l’Italia può dare al processo dei negoziati sul clima, concretamente?

Non è semplicissimo scindere il contributo dei singoli paesi UE dall’Unione stessa. Sul clima Bruxelles parla con un’unica voce. Certamente l’Italia contribuisce definendo il più ambiziosamente possibile le politiche e le posizioni in sede UE. In Europa siamo quelli che più hanno spinto per posizioni progressiste e ambiziose. Quest’anno l’italia ha un’opportunità ulteriore per far sentire sua voce, grazie al ruolo di primo piano nel processo verso la COP26 insieme alla Gran Bretagna.

Sotto questo aspetto, un tema su cui l’Italia sta puntando molto è quello dei giovani. Di solito lo si reputa poco incisivo. Ma è importante. L’Italia ad esempio organizza lo Youth4Climate, iniziativa che si terrà in parallelo alla pre-COP e coinvolgerà i giovani. Ci sarà un canale diretto, per loro, per avanzare proposte concrete e confrontarsi direttamente con la politica.

Secondo un recente sondaggio di Euromedia Research, gli italiani che indicano clima e ambiente come priorità per l’uso del Recovery Fund sono appena il 3,1%. In Italia manca una cultura climatica?

Sì, manca un po’ una cultura climatica solida e che coinvolga l’intera opinione pubblica. Abbiamo però fatto passi da gigante negli ultimi anni. Nel 2014-15, con diverse associazioni, lavorai per organizzare delle marce per il clima a Roma. Parteciparono tra le 10 e le 20mila persone. Ci sembrò un successo planetario. Poi l’anno scorso, con i Fridays for Future, i numeri sono lievitati, si sono aggiunti degli zeri.

Detto questo, per anni abbiamo avuto un dibattito sul cambiamento climatico inadeguato rispetto all’importanza e l’urgenza della questione. Su questo parte dei media, specie quelli generalisti, spesso non si sono dimostrati all’altezza. Il dibattito sul clima è stato spesso condotto su basi non scientifiche.

Come rimediamo?

I media potrebbero trattare il clima non più solo come una questione ambientale. Parliamone nelle sezioni economia dei quotidiani, ad esempio, perché il cambiamento climatico riguarda tutti gli aspetti della società. E finché il clima non sarà una questione prioritaria per il singolo cittadino, difficilmente sarà prioritaria anche per la classe politica a livello internazionale. E se c’è la volontà politica, i negoziati sul clima funzionano alla perfezione.