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Zero deforestazione entro il 2030? Il Brasile si rimangia le promesse

Il leader del senato brasiliano spiega in conferenza stampa che l’unica deforestazione che sarà portata a zero è quella illegale, mentre il disboscamento trainato da agricoltura, allevamento, infrastrutture e miniere non si fermerà

Deforestazione: Italia tra le peggiori in Europa
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Dopo l’Indonesia, anche il Brasile denuncia l’accordo di Glasgow sulla deforestazione

(Rinnovabili.it) – Prima il voltafaccia clamoroso dell’Indonesia. Adesso i malumori e i distinguo del Brasile. L’accordo contro la deforestazione raggiunto alla COP26 sta perdendo i suoi tasselli più importanti. I due paesi, infatti, ospitano le foreste pluviali più importanti del pianeta e sono cruciali per dare senso al patto di Glasgow, che prevede di portare a zero il disboscamento e il degrado dei suoli entro il 2030.

A far traballare l’accordo ci hanno pensato un pugno di senatori brasiliani. Dalla città scozzese hanno tenuto una conferenza stampa in cui hanno mandato un messaggio chiarissimo: il patto contro la deforestazione, per noi, riguarda soltanto quella illegale. E il disboscamento fatto nel rispetto della legge, trainato speso dall’espansione dei terreni agricoli? Per lavorare su questo fronte servono soldi, e tanti, fa sapere il leader del senato brasiliano Rodrigo Pacheco.

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“Per essere conservate, queste foreste hanno bisogno del contributo di tutti i paesi, specialmente quelli sviluppati, che hanno beneficiato prima delle loro attività economiche, con qualche sacrificio per l’ambiente”, ha detto Pacheco. La deforestazione deve essere affrontata con meccanismi di controllo, ha concesso il senatore, ma questi investimenti dei paesi sviluppati “sono vitali ed equi, perché c’è una logica di compensazione storica e non di altruismo filantropico”.

Di soldi, però, l’accordo sulla deforestazione firmato da 100 paesi a Glasgow ne ha messi pochi: meno di 20 miliardi. Mentre il Brasile, nei mesi scorsi, chiedeva almeno 1 mld di dollari l’anno solo per sé, in cambio di più tutele all’Amazzonia. Con il mezzo voltafaccia del Brasile, il patto scricchiola e non poco. Il problema in Brasile, infatti, non è solo il logging illegale ma anche, anzi soprattutto, la quota di disboscamento legalizzato da politiche fortemente estrattive. Questa tipologia di logging è schizzata alle stelle con il nuovo presidente.

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Il degrado delle foreste e il cambio di destinazione d’uso dei suoli, trainato da agricoltura e allevamento, sono responsabili del 25% delle emissioni globali: in pratica, tanto quanto il primo inquinatore mondiale, la Cina. E la sola Amazzonia, ormai diventata un emettitore netto (produce più CO2 di quanta ne assorbe), se fosse un paese sarebbe al 9° posto nella classifica di chi emette più gas serra al mondo.

Al punto interrogativo su cosa farà il Brasile si aggiunge la certezza di cosa non farà l’Indonesia. Il paese che ospita la terza foresta pluviale al mondo per estensione – e che ne ha disboscata ormai metà in 70 anni con il logging illegale, per far spazio a piantagioni di palma da olio – ha ritirato la sua firma dall’accordo solo 24 ore dopo averlo siglato. Un accordo che ha bollato come “ingiusto” perché sarebbe un freno allo sviluppo. D’altronde i progetti che l’Indonesia ha in cantiere potrebbero portare a una deforestazione di altro 550mila km2 entro 20 anni. (lm)