Il blocco dei paesi in via di sviluppo, guidati dalla Cina, ha strappato un accordo che ha una portata storica e molti risvolti per la politica internazionale e la governance globale. Entro un anno il nuovo strumento dovrà essere operativo, raccogliere finanziamenti “nuovi e aggiuntivi”, e rispondere al principio di equità che innerva il Paris agreement
È l’unico segnale positivo emerso dalla COP27 di Sharm
(Rinnovabili.it) – Nella notte tra sabato 19 e domenica 20 novembre, la COP27 di Sharm ha scritto un nuovo capitolo della cooperazione sul clima tra Nord e Sud globali. Da 30 anni i paesi in via di sviluppo chiedevano uno strumento finanziario che rispondesse a un principio di giustizia climatica: chi rompe paga.
Pagano cioè i paesi più ricchi, che oggi sono tra i maggiori emettitori mondiali e che, molto spesso, sono anche i maggiori responsabili della crisi climatica quando si considerano le emissioni storiche accumulate dalla metà dell’800 a oggi. I destinatari di questo denaro devono essere i paesi che subiscono di più l’impatto del climate change che non è possibile evitare attraverso misure di mitigazione e adattamento, nonostante siano responsabili solo di una parte infinitesimale dell’aumento della temperatura sul Pianeta.
Il vertice sul clima che è appena terminato in Egitto è riuscito a portare a casa questo risultato storico. Vediamo nel dettaglio in cosa consiste il nuovo Fondo per perdite e danni (Loss and damage fund, LDF), come sono andati i negoziati per crearlo, e quali saranno i prossimi passi per renderlo operativo.
I litigi incominciano già alla vigilia della COP27 di Sharm
Il percorso di avvicinamento alla COP27 di Sharm non aveva fatto ben sperare in una svolta per il capitolo loss and damage. I paesi con economie avanzate hanno provato ancora una volta, come hanno fatto per anni, a rimandare la discussione su perdite e danni. Il tema ha rischiato di non entrare nemmeno nell’agenda del vertice e fino all’ultimo i delegati hanno litigato su quali parole esatte usare.
Perché questa reticenza? Il Nord globale ha paura che i loss and damage giustifichino richieste di enormi somme di denaro da parte dei paesi in via di sviluppo e meno sviluppati nella forma di compensazioni o risarcimenti. Se accettasse una formulazione del genere, la parte più ricca del mondo riconoscerebbe appieno le sue responsabilità nella crisi climatica e – così teme – si aprirebbe il vaso di Pandora. In teoria si potrebbero chiedere risarcimenti per l’impatto sul clima della rivoluzione industriale in Gran Bretagna o per lo sviluppo industriale negli Stati Uniti. Eventi di 150-200 anni fa.
I paesi che spingono per i loss and damage hanno sempre chiarito di non voler usare lo strumento finanziario in quel modo ma i paesi più ricchi si sono arroccati sulla difensiva. Questo nodo ha rischiato anche di far naufragare l’accordo di Parigi nel 2015. Nella decisione che lo istituisce (1/CP.21), l’articolo 51 specifica che quanto pattuito con l’articolo 8, quello dedicato a perdite e danni, “non implica o costituisce una base per alcuna responsabilità o compensazione”. Una dicitura voluta esplicitamente dagli Stati Uniti, che anche alla COP27 sono stati i più restii a dare l’ok finale all’accordo.
Cos’è cambiato da allora? Perché, insomma, quest’anno c’è stata una svolta sul dossier? È successo perché i paesi meno ricchi, i 134 che rappresentano il G77, più la Cina, per la prima volta hanno negoziato con una sola voce. Mettendo la controparte spalle al muro, presentando una nuova bozza redatta da loro come unica base negoziale accettabile, tenendo le stesse posizioni per due settimane in ogni meeting. Non era affatto scontato. E ha avuto l’effetto di accelerare la discussione, impedendo ai paesi più ricchi di fare mielina.
Cosa ha deciso la COP27 su perdite e danni?
Il documento che contiene l’accordo su loss and damage raggiunto alla COP27 di Sharm fa essenzialmente tre cose: istituisce un Fondo per perdite e danni, ne definisce il perimetro essenziale, e crea un Comitato transitorio che lo renderà operativo entro un anno.
Il punto 1 “riconosce la necessità urgente e immediata di risorse finanziarie nuove, aggiuntive, prevedibili e adeguate per assistere i Paesi in via di sviluppo, particolarmente vulnerabili agli effetti negativi dei cambiamenti climatici, nel rispondere alle perdite e ai danni economici e non economici associati agli effetti negativi dei cambiamenti climatici, compresi gli eventi meteorologici estremi e gli eventi ad insorgenza lenta, soprattutto nel contesto delle azioni in corso ed ex post (comprese la riabilitazione, il recupero e la ricostruzione)”.
“Nuove, aggiuntive, prevedibili e adeguate” è la formulazione su cui si è impuntata la Cina insieme al G77. È un punto essenziale perché spazza via in un colpo solo tutti i tentativi di molti paesi a economia avanzata di trasformare i loss and damage in nulla più che una protezione civile globale. L’idea che circolava alla vigilia, infatti, era di usare strumenti finanziari già in vigore, unirli ai fondi della cooperazione allo sviluppo, e dichiarare che quel tipo di supporto rispondeva allo spirito di perdite e danni. Tutto questo avrebbe permesso, tra l’altro, di rinviare ancora una volta la discussione su un nuovo strumento. L’altro vantaggio era di governance, che restava in mano ai paesi più sviluppati.
“Nuove, aggiuntive” risorse significa che quelle già stanziate non vanno contate per loss and damage. “Prevedibili” si tradurrà in un obiettivo globale quantificato e con una data certa, sulla falsariga di quanto già si sta facendo con i famosi 100 miliardi di dollari l’anno in finanza per il clima entro il 2020 (che in realtà non si sono ancora materializzati). “Adeguate” richiama la necessità di commisurare l’obiettivo alle necessità reali. Che da qui al 2030 variano dai 400 mld $ l’anno ai 280-580 mld $ l’anno secondo due degli studi più accreditati in materia. Restano poi i riferimenti, già previsti dal Paris agreement ma tornati in discussione più volte, di includere anche danni e perdite “non economici” e quelli dovuti a “eventi a lenta insorgenza” come aumento del livello del mare, erosione costiera, acidificazione degli oceani, fusione dei ghiacciai.
L’altro punto critico, su cui si è invece impuntata l’UE, riguarda l’espressione “particolarmente vulnerabili”, ripetuta anche in altre parti del documento. È un modo per restringere la platea di destinatari o, almeno, per dare priorità a chi è più bisognoso di supporto. Durante questi anni di negoziati, i paesi più ricchi hanno provato a smontare il blocco negoziale del G77 promettendo aiuti mirati ad alcuni gruppi di paesi, in particolare i piccoli stati insulari (SIDS) e i paesi meno sviluppati (LDC). La tattica quest’anno non ha più funzionato ma, per dare l’ok finale al testo, l’UE ha preteso che l’espressione fosse inclusa chiaramente.
E si lega a un altro punto, questo tutto politico, che è emerso alla COP27 di Sharm. L’Europa ha posto una questione chiara: la posizione della Cina, che si autodefinisce paese in via di sviluppo ancora oggi, anche se è la seconda economia mondiale e il primo inquinatore, non è sostenibile. Anche la Cina dovrebbe mettere soldi per i loss and damage, insomma. Il problema è che la definizione di paese in via di sviluppo è scritta nero su bianco nei documenti fondativi dell’Unfccc: bisogna cambiare quelli – che risalgono al 1992 – e non sarà facile. Pechino intanto ha fatto sapere che la COP27 non è la sede per discutere di riforme della Convenzione sul cambiamento climatico dell’ONU e che, comunque, la Cina sborsa già volontariamente aiuti ai paesi in via di sviluppo.
Torniamo al testo approvato a Sharm. Il punto 2 “decide di stabilire nuove modalità di finanziamento” per rispondere alla necessità di fronteggiare perdite e danni. È l’espressione che porterà alla creazione di un Fondo (Financial facility) vero e proprio. A guidare questo processo, che durerà un solo anno e si concluderà quindi alla COP28, sarà un Comitato transitorio composto da 24 membri di cui 14 espressi dai paesi in via di sviluppo. La governance pende da questo lato e non si potrà più ritardare la creazione di questo strumento. Anche questo punto non era scontato: le varie bozze parlavano di un orizzonte al 2024, in alcuni casi persino depotenziato perché entro quella data si sarebbe solo “cercato” (“with a view to”) di creare il nuovo Fondo.
Altro compito fondamentale del Comitato è individuare “potenziali fonti di finanziamento, riconoscendo la necessità di un sostegno da un’ampia varietà di fonti, comprese quelle innovative” (art.6 e). Il testo non lo dice, ma le discussioni in merito alle fonti innovative di finanziamento, al momento, stanno prendendo in considerazione l’ipotesi di creare delle tasse globali sui combustibili fossili o sui voli.
Infine, un aspetto da non sottovalutare – e su cui il G77 ha tenuto il punto – è che la creazione del Fondo per perdite e danni è contenuto in entrambe le decisioni finali della COP27 di Sharm: sia quella della Conferenza delle Parti che serve come riunione delle Parti dell’Accordo di Parigi (CMA), sia quella della Conferenza delle Parti (CP). Mettendo il futuro dei loss and damage anche sotto quest’ultima, infatti, lo si subordina al rispetto del principio di equità che è incastonato nell’accordo del 2015. Una garanzia in più, per i paesi meno sviluppati, di riuscire a ottenere fondi adeguati.
(lm)