Il vertice sul clima istituisce finalmente un fondo per perdite e danni chiesto da 30 anni dai paesi più vulnerabili alla crisi climatica. L'accordo però è pessimo sul fronte della mitigazione: nessun passo avanti rispetto a Glasgow e molte scappatoie per chi non vuole aumentare l'ambizione.
I negoziati della COP27 sono durati quasi 40 ore oltre il termine di venerdì 18 novembre
(Rinnovabili.it) – Immaginate un condominio dove tutti gli appartamenti sono danneggiati da infiltrazioni d’acqua perché il tetto è rotto in più punti. I danni li subiscono soprattutto i piani inferiori perché lì si accumula più acqua e gli inquilini hanno meno possibilità di intervenire. A rompere il tetto è stata l’incuria di tutti, ma soprattutto di chi abita di sopra. Immaginate che una riunione di condominio, convocata per risolvere il problema, decida che gli inquilini dei piani alti paghino una parte dei danni ai piani bassi. Ma nient’altro: non si fa nulla per riparare il tetto e l’assemblea è tolta. Vi sembra una follia? È quello che è appena successo alla COP27 di Sharm el-Sheikh.
Il vertice sul clima si chiude con un accordo – il Piano di attuazione di Sharm el-Sheikh – che ha un solo acuto: il fondo per perdite e danni è finalmente realtà. Ma stecca su gran parte degli altri dossier principali. Zero ambizione in più rispetto alla COP26 di Glasgow. Di dire basta alle fossili non se ne parla. Il capitolo sulla mitigazione è la caporetto degli 1,5°C, anche se questo obiettivo viene ribadito. Ci sono le parole, non ci sono le azioni necessarie. Il gap tra dove siamo e dove dovremmo essere resta enorme e questo vertice sul clima non fa praticamente nulla per ridurlo. Così, mentre si decide che è giusto – ed è giusto – che i paesi ricchi paghino i danni, non si agisce sulla causa dei danni.
Un risultato magrissimo per la COP27 di Sharm, che aveva un obiettivo chiaro: dare concretezza alle decisioni prese un anno fa in Scozia. Per questo era stata subito chiamata “the implementation COP”, la COP dell’attuazione. Cos’ha ottenuto? Ribadire le promesse della COP26, peraltro a stento. E poco altro. “È più che altro la COP della ripetizione”, hanno pensato molti in questi giorni.
Il bicchiere è mezzo pieno…
La COP27 di Sharm sarà ricordata per aver creato un fondo per le perdite e danni. Con questa espressione (in inglese loss & damage), il processo delle COP indica gli aiuti ai paesi più colpiti dalla crisi climatica, che dovrebbero essere garantiti dai paesi più ricchi. Era il punto più importante tra quelli in agenda al vertice sul clima in Egitto. Ed è stato anche quello più complicato da trattare. A Sharm è andato in scena un braccio di ferro molto teso tra paesi sviluppati e paesi in via di sviluppo. A differenza di tutte le volte precedenti, hanno vinto i secondi.
È una vittoria perché, prima di tutto, la COP27 istituisce subito un fondo, senza rimandarlo ai prossimi summit. E il fondo sarà operativo già dell’anno prossimo alla COP28 che si terrà negli Emirati Arabi Uniti, invece di rimandare anche questa pratica alle calende greche. I paesi ricchi – che nei mesi scorsi hanno cercato di evitare addirittura che questo tema finisse in agenda – volevano posticipare ogni decisione al 2024. Hanno proposto un percorso, a tratti vago, per i prossimi due anni. I paesi meno sviluppati chiedono di affrontare il tema perdite e danni da 30 anni e hanno rispedito al mittente la proposta.
Fino alla sera di venerdì, ufficialmente l’ultimo giorno di COP27, sembrava che i loss & damage fossero di nuovo destinati a restare lettera morta. A sbloccare l’impasse è stata l’Europa. Che ha accettato molte richieste dell’altra parte, proponendo un nuovo testo a cui era difficile dire di no. In cambio ha chiesto tre cose: un accordo migliore sul capitolo mitigazione, di indicare i “paesi particolarmente vulnerabili” come destinatari degli aiuti in via prioritaria, di rivedere la platea dei donatori. Ha ottenuto la seconda e si è accontentata.
L’idea era di evitare che anche paesi con un Pil pro capite alto (grazie, tra l’altro, alle fossili), come quelli del Golfo – formalmente ancora indicati come in via di sviluppo –, potessero accedere agli aiuti prima di altri, più titolati. “Particolarmente vulnerabili” significa colpiti dall’impatto del climate change, ma anche senza mezzi per mitigarlo, adattarsi, o per dare risposte rapide dopo un evento estremo. È diverso dal concetto di paesi semplicemente “esposti” o “colpiti” dalla crisi climatica.
Per lo stesso principio, l’Europa ha chiesto a gran voce che la Cina – anche lei ai fini Unfccc è ancora in via di sviluppo, in base a una decisione presa nel 1992 – entri nel novero dei donatori. Pechino ha glissato, il tema però è posto. E trova qualche consenso anche tra i paesi meno sviluppati. Se ne riparlerà e sarebbe ora: in questi 30 anni la Cina ha fatto crescere la sua economia di 50 volte e si appresta a superare gli Stati Uniti, mentre è già da tempo il primo inquinatore mondiale e si trova ai primissimi posti anche quando si considerano le emissioni storiche.
…il bicchiere è mezzo vuoto
La COP27 di Sharm non sarà invece ricordata per aver finalmente detto con chiarezza che il principale responsabile della crisi climatica sono i combustibili fossili. Come nelle 26 COP precedenti, anche in Egitto i lobbisti dell’oil&gas (insieme ad alcuni paesi esportatori di petrolio, su tutti l’Arabia Saudita e la Russia) hanno avuto un ruolo decisivo nell’evitare ogni riferimento a greggio e gas fossile. “Concentriamoci sulle emissioni e non sulle loro fonti, non è questa la sede appropriata” è stato il mantra della delegazione di Riad. E come l’anno scorso a Glasgow, anche a Sharm i lobbisti fossili erano la delegazione più grande. Quest’anno anche più grande: il 15% in più.
Cosa dice l’accordo finale? Quello che aveva già detto il Patto sul clima di Glasgow. Usa quasi le stesse parole per chiedere la riduzione (phase down) dell’uso del carbone. Ancora una volta solo riduzione e non eliminazione (phase out), e solo del carbone senza tecnologie per l’abbattimento di emissioni (unabated). Sui sussidi ai combustibili fossili, ricalcando la COP26, si chiede il phase out ma solo di quelli inefficienti.
È poco? Sì. Non c’è alcun passo avanti rispetto a 12 mesi fa. Anche se le richieste di includere tutti i combustibili fossili nell’impegno per il phase down – anche petrolio e gas – è arrivato da più parti: India ed Europa su tutti (ma sarebbero 80 i paesi a favore). La presidenza di turno, l’Egitto, ha scelto di non includere nemmeno l’opzione nelle bozze della decisione finale. Una scelta che ha attirato sul Cairo numerosissime critiche, non da ultimo perché sembra una mossa che mette gli interessi del paese negli idrocarburi davanti al ruolo di mediatore super partes e di garante dei negoziati. Fuori da qualsiasi bozza anche l’impegno di raggiungere il picco di emissioni nel 2025.
È poco, si diceva. Ma sarebbe potuta andare anche peggio. Nelle ultime versioni del testo finale, infatti, per i sussidi fossili era comparsa una doppia via: non solo eliminarli, ma anche (o in alternativa) razionalizzarli. Insomma, un modo per disinnescare qualsiasi richiesta di cancellarli davvero visto che i due termini sono in contraddizione tra loro. Alla fine la razionalizzazione è stata depennata. Ma su questa parte del Piano di attuazione di Sharm el-Sheikh, mitigazione ed energia, i delegati hanno litigato per un giorno e mezzo oltre la fine ufficiale della COP27 di Sharm.
La COP27 di Sharm si incaglia sulla politica di mitigazione
A tratti, sabato notte, è sembrato probabile che la COP27 fallisse. Molti temi sono ritornati in discussione, la plenaria finale è stata rimandata dalle 17 di ora in ora fino alle 3 del mattino. Dietro le quinte, molti paesi volevano un capitolo su mitigazione più ambizioso, che facesse un passo avanti oltre Glasgow. Gli Stati Uniti hanno provato a cambiare il phase down in phase out. Senza successo. L’Europa ha tentato un’ultima spallata. Anche questa si è infranta contro il muro alzato da pochi paesi produttori di combustibili fossili – Riad, Teheran e Mosca soprattutto. Alla fine, le uniche modifiche rilevanti sono state l’aggiunta di un riferimento alle “energie a basse emissioni”, di fianco alle rinnovabili, come opzione per tagliare in fretta le emissioni – un modo per blindare le fossili – e un’altra aggiunta nella notte: i tagli alle emissioni sono da fare solo nei “settori dove sono applicabili” (all applicable sectors).
Ma questa parte cruciale dell’accordo – quella che permette di riparare il tetto, nella metafora usata in apertura – ha problemi anche più grandi. Ripete il linguaggio della COP26 sul rispetto dell’obiettivo degli 1,5°C, ma senza rafforzarlo in alcun modo. Richiama la necessità di presentare NDC aggiornati, ma anche qui senza vera forza. Perché in realtà questo capitolo è scritto in modo da permettere a tutti di non aumentare l’ambizione e non fissare nuovi obiettivi che accelerino l’azione sul clima. Se si legge che il processo del Work Programme on Mitigation durerà fino al 2030, in teoria per assicurare l’adeguatezza degli impegni globali con i target per fine decennio, l’accordo della COP27 di Sharm lascia tutte le scappatoie per non fare assolutamente nulla.
Una scatola vuota, insomma. Che fa traballare anche il Patto di Glasgow, dove l’ambizione derivava proprio da un meccanismo che avrebbe dovuto – in teoria – portare a nuovi impegni sul clima con più frequenza rispetto a quanto stabilito nel 2015 a Parigi. “Il lavoro che abbiamo fatto in queste due settimane testimonia la nostra volontà politica” sul clima, dice il presidente della COP27, l’egiziano Sameh Shoukry, mentre si fanno le 6 del mattino e l’ultima plenaria sta finendo. La testimonia, sì: continua a non essere adeguata.
Leggi qui il Piano di attuazione di Sharm el-Sheikh: COP e CMA
Leggi qui tutti i documenti approvati alla COP27 di Sharm
Leggi l’approfondimento sul dossier perdite e danni
Leggi l’approfondimento sul dossier mitigazione
Leggi l’approfondimento sul dossier finanza climatica
Leggi l’approfondimento sul dossier dell’articolo 6 / scambio dei crediti di carbonio
Leggi l’approfondimento sul tema della protezione della biodiversità
(lm)