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COP27, la guerra in Ucraina aleggia sulla conferenza Onu sul clima

Dal 24 febbraio il mondo è cambiato e le ripercussioni dell’invasione russa dell’Ucraina si sono fatte sentire a 360 gradi. Anche sulla diplomazia climatica e sulle chance di ottenere buoni risultati al termine del 27° summit sul clima, al via domani in Egitto

Conferenza Onu sul clima: l’impatto dell’Ucraina sulla COP27
Photo by Tina Hartung on Unsplash

Quali conseguenze avrà il ritorno della guerra in Europa sulla COP27 di Sharm el-Sheikh?

(Rinnovabili.it) – Dalla metà degli anni ’90 a oggi, il processo delle COP è passato attraverso (poche) accelerazioni e (molte) brusche frenate. A dettare il ritmo della diplomazia climatica e le chance di strappare un buon accordo al termine di ogni conferenza Onu sul clima è soprattutto lo stato delle relazioni internazionali. Il Paris agreement arrivò – anche, non esclusivamente – perché Stati Uniti e Cina, cioè i due maggiori inquinatori mondiali, unirono le forze ed esercitarono pressioni sui loro partner. A 24 ore dall’apertura ufficiale del summit di Sharm el-Sheikh, possiamo dire che la COP27 parte sotto i peggiori auspici da 25 anni a questa parte.

L’ombra dell’Ucraina sulla conferenza Onu sul clima

In Egitto, l’elefante nella stanza è ovviamente l’invasione russa dell’Ucraina. Dal 24 febbraio di quest’anno le relazioni tra Washington, le cancellerie europee e Mosca sono ai minimi dai tempi della Guerra Fredda. La Cina, pur lasciando intuire il fastidio per la mossa di Putin, ha continuato a spalleggiare i russi o almeno a non schierarsi apertamente contro di loro. Lo scontro non è solo sull’Ucraina ma sull’ordine globale, sulle regole della convivenza tra stati forgiate nel dopoguerra e con il collasso dell’Urss. Infatti costringe tutti i paesi a schierarsi. Uno scontro del genere non può non causare effetti collaterali in molte direzioni.

Uno degli effetti collaterali della guerra in Europa è il peggioramento delle relazioni tra Pechino e Washington, il nuovo contendente (che prova a tirare la corda) e l’attore oggi egemone (che cerca di tenere in piedi quanto costruito nei decenni precedenti). Le tensioni affiorano in molti campi e la diplomazia climatica non resta fuori dal perimetro: ad agosto la Cina ha sospeso la cooperazione sul clima con gli Usa per la visita a Taiwan della speaker della Camera, Nancy Pelosi. I cinesi considerano l’isola parte integrante della nazione (in ossequio alla One China policy) e vivono il supporto americano a Taipei come un’ingerenza nei loro affari interni.

Quali ripercussioni avrà alla conferenza Onu sul clima tutto ciò? Ci sono alcuni dossier importanti che, senza un’intesa sull’asse USA-Cina, traballano. Uno su tutti: la cooperazione per tagliare le emissioni di metano, che è responsabile storicamente di quasi metà del global warming cumulato (circa 0,5°C) e ha un ruolo critico nel centrare gli obiettivi sulle emissioni al 2030. Altro dossier delicato e a rischio è quello dei Loss & Damage, dove Stati Uniti e Cina siedono da parti opposte della barricata: i primi frenano la creazione del meccanismo per risarcire i paesi più vulnerabili dei danni della crisi climatica, la seconda si schiera con questi ultimi e se ne fa portavoce (ad esempio, coordinandosi con il Gruppo dei 77).

La COP27 dirà “Viva il gas!”

Vista dall’Africa, invece, la guerra in Ucraina è un’opportunità per molti e la conferenza Onu sul clima l’occasione per sancire alcuni principi che potrebbero guidare la transizione energetica del continente. Il punto è semplice: dopo il 24 febbraio, da un lato c’è un’Europa affamata di gas e dall’altro lato ci sono molti paesi africani con riserve ingenti di idrocarburi ancora da sfruttare. E se il gas va bene quando deve riscaldare i condomini di Berlino, Parigi e Varsavia, allora deve andar bene anche per lo sviluppo economico di paesi come il Senegal e il Mozambico e per ripianare i bilanci di produttori come Algeria e lo stesso Egitto che organizza la conferenza Onu sul clima.

Un’occasione che le delegazioni africane non si faranno scappare. Da alcune anticipazioni, la richiesta degli oltre 50 paesi a Sharm el-Sheikh sarà proprio quella di dare un ruolo di giusto rilievo al gas nella transizione energetica, evitando di saltare in modo rapido alle energie pulite. E nella congiuntura attuale, sia l’Europa che gli Stati Uniti – tra crisi energetica e inflazione alle stelle – non sono nella condizione di dire un no secco e di esporsi a ricatti energetici. Con buona pace degli scenari coerenti con gli 1,5°C, in cui non c’è spazio per la messa in produzione di nuovi giacimenti fossili. E sì, cercando di fare a meno del gas russo l’Europa ha accelerato la decarbonizzazione: ma cosa succederà quando l’UE si sarà assicurata abbastanza forniture di gas per non temere più l’inverno e i danni all’economia?

(lm)

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