Per il presidente designato della COP26 dell’anno prossimo, Alok Sharma, quanto fatto “non è ancora abbastanza” e serve “un cambiamento radicale” per centrare l’obiettivo più ambizioso di Parigi, +1,5°C.
Il Climate Ambition Summit non è stato il punto di svolta sperato dagli organizzatori
(Rinnovabili.it) – Di ambizioso nel Climate Ambition Summit di sabato 12 dicembre c’è stato solo il nome. Pochi gli annunci degli Stati che hanno realmente alzato l’asticella dell’ambizione climatica. E nessuno davvero di peso. Così non inizia sotto i migliori auspici il percorso di avvicinamento alla COP26 che si terrà nel novembre prossimo a Glasgow, in Scozia. Il summit virtuale che si è tenuto nel fine settimana doveva lanciare la volata a questo evento e catalizzare l’azione climatica globale. L’occasione era l’anniversario della forma dell’accordo di Parigi sul clima, nel 2015. E l’aggiornamento dei Contributi nazionali volontari, gli NDC con cui ogni paese notifica all’Onu i suoi obiettivi climatici. Ma tirando le somme è evidente che le aspettative sono state deluse, e di parecchio.
Cos’è successo al Climate Ambition Summit
“Per quanto sia incoraggiante tutto questo livello di ambizione, non è ancora abbastanza”: la sintesi perfetta, nei contenuti e nel disappunto, dell’appuntamento sul clima è di Alok Sharma, l’inglese che presiederà la COP26. Un altro modo di riassumere le 6 ore di discorsi da parte di capi di Stato e di governo è: molte promesse, nessun vero piano.
In totale, 45 paesi hanno presentato piani climatici 2030 rafforzati, con Giappone e Corea del Sud che promettono obiettivi più ambiziosi per il prossimo anno. 24 leader hanno promesso di ridurre le emissioni a livello net-zero, e 20 nazioni hanno annunciato piani di adattamento e resilienza più forti.
Il problema è che tutto ciò è assolutamente troppo poco per centrare gli obiettivi di Parigi. Lo aveva messo nero su bianco l’Emission Gap Report dell’Onu pubblicato la vigilia del summit sul clima. Il livello globale degli impegni climatici deve aumentare da 3 a 5 volte affinché si riesca a stare entro il limite massimo fissato nella capitale francese, i +2°C di riscaldamento globale oltre i livelli pre-industriali.
Unione Europea e Gran Bretagna sono arrivate al summit fresche di nuovi obiettivi climatici, decisi nei giorni precedenti. Bruxelles col taglio delle emissioni almeno del 55% entro il 2030 e Londra con la riduzione del 68% e un piano piuttosto articolato (anche se ancora con pochi dettagli) per la ripresa verde. Nuovi paesi allungano la lista di chi promette la neutralità climatica attorno alla metà del secolo. Ma pesano molto poco sulle emissioni globali: si tratta di Argentina, Giamaica, Panama, Maldive, Malawi, Nepal e il Vaticano. E poi grandi assenti tra gli inquinatori più pesanti a livello mondiale: non hanno parlato Russia, Brasile e Australia.
La Cina è lontana
Ha deluso anche l’attesissimo discorso del presidente della Cina Xi Jinping. All’assemblea generale dell’Onu, a settembre, il leader cinese aveva stupito il mondo annunciando la neutralità climatica entro il 2060. Ma il discorso di sabato non ha affrontato i nodi maggiori di quello che, ad oggi, resta un piano d’azione assolutamente oscuro. Xi si è limitato a promettere che taglierà l’intensità di carbonio per unità di Pil del 65% entro il 2030, rispetto ai livelli del 2005. Nel 2015, questa stessa promessa era stata fissata al 60%. Non un grande passo in avanti per il maggior inquinatore mondiale.
Il presidente cinese ha poi aggiunto altri dettagli, in particolare sullo sviluppo delle rinnovabili. Pechino adesso punta ad avere entro fine decennio una capacità installata di eolico e solare di oltre 1.200 GW (erano 415GW a fine 2019), e di alzare dal 20% al 25% l’obiettivo della quota di consumo energetico primario che non proviene da fonti fossili. Non una parola invece sul carbone, il passaggio più atteso. Tanto che sotto questo aspetto la Cina è riuscita a farsi togliere la scena persino dal Pakistan, che ha promesso lo stop a ogni nuovo impianto a carbone. Pechino ha in cantiere centrali a carbone per alcune centinaia di GW nei prossimi anni. Senza agire su questi progetti, molti osservatori ritengono che sarà difficile centrare l’obiettivo del picco di emissioni entro il 2030 e la neutralità climatica 30 anni dopo.
Sharma: serve un “cambiamento radicale”
Nota positiva: la Gran Bretagna ha alzato ulteriormente l’asticella, per dare il buon esempio. E ha annunciato che cesserà di finanziare (con fondi statali) progetti legati a oil&gas all’estero a partire dall’anno prossimo. Nessun altro paese con compagnie fossili comparabili a quelle inglesi, però, ha seguito l’esempio di Londra. Gli organizzatori speravano almeno nella Francia, ma il presidente Macron si è ben guardato dall’imitare gli inglesi. Dall’Eliseo è arrivato solo l’impegno a porre fine ai finanziamenti a progetti sul gas entro il 2035 e sul petrolio entro il 2025.
Finanza climatica grande assente del Climate Ambition Summit. Dopo aver fallito ripetutamente gli obiettivi annuali – 100 miliardi di dollari l’anno in misure di mitigazione e di adattamento – di nuovi soldi promessi non c’è quasi l’ombra. Rispetto all’impegno dell’Italia su questo fronte – 30 milioni di euro per l’Adaptation Fund Onu – quello della Germania giganteggia con i suoi 500 milioni. Briciole, comunque, rispetto a quello di cui ci sarebbe bisogno per aiutare i paesi in via di sviluppo a far fronte all’impatto del cambiamento climatico.
Il prossimo presidente della COP26, Sharma, ha riconosciuto che è necessario “un cambiamento radicale” negli sforzi di riduzione delle emissioni per raggiungere l’obiettivo degli 1,5°C. E ha sottolineato che per centrarlo servono politiche come il phase out graduale del carbone. Altri punti imprescindibili secondo l’inglese: “rafforzare l’adattamento” e “far fluire i finanziamenti” per non fallire a Glasgow. E ha promesso di convocare le principali economie mondiali per lavorare su questi temi durante la presidenza del G7 del Regno Unito il prossimo anno.