La CCS o CCUS, viene spesso citata tra i pochi assi nella manica rimasti per mitigare il cambiamento climatico. Ma la Fisica e l’Economia ne svelano tutti i limiti. Anatomia a puntate di una tecnologia dalle troppe aspettative malriposte (e malinformate)
di Matteo Grittani
(Rinnovabili.it) – Di Transizione ecologica, finalmente si parla. Nel nostro Paese, così come in molti altri Stati europei, una delle tecnologie più inflazionate da media spesso non troppo abituati a trattare questi argomenti, è la Cattura dell’anidride carbonica (CCS o CCUS). Con la prima parte di questo focus abbiamo cercato di capire a grandi linee di cosa si tratta, se (e se sì dove) esistono esempi di impianti significativi e già operanti, se è “scalabile”, ovvero se allo stato attuale sussistono le condizioni tecnologiche ed economiche di adottarla su larga scala, e se è economica. Riassumendo: la risposta che viene fuori è all’incirca no a tutte le domande. Qualora lo vogliate, potete leggere le argomentazioni nel primo e nel secondo articolo di approfondimento. Oggi ci concentriamo invece su un settore specifico: quello dell’industria pesante, che secondo molti esperti sarà il vero banco di prova per il Green Deal. Su una cosa, infatti, ingegneri, analisti energetici e policymakers che si occupano di decarbonizzazione concordano: la transizione ecologica applicata all’industria pesante sarà “la più grande sfida a lungo termine che abbiamo davanti nei prossimi anni”, citando Vaclav Smil, professore emerito alla Facoltà di Scienze ambientali all’Università di Manitoba e forse il più importante esperto di energia e civilizzazione al mondo.
CCS e “heavy industry”: perché non è così semplice
Facciamo un passo indietro. Per il petrolchimico, per la produzione di acciaio, cemento e alluminio – settori che valgono quasi un terzo delle emissioni di gas serra globali – l’unica soluzione che talvolta viene offerta è proprio la cattura e il sequestro del carbonio. Ma se le difficoltà a decarbonizzare questi segmenti altamente inquinanti dell’economia sono senz’altro reali e oggettive, le potenzialità della CCS sono, anche in questo caso, largamente sovrastimate. Le dinamiche di emissione di CO2 e altri GHGs per questo settore sono ancora più complesse rispetto al comparto della mera produzione di energia: si va dal consumo di elettricità per alimentare reazioni chimiche, all’utilizzo massivo di combustibili fossili come reagenti (es: produzione dell’acciaio), ai sottoprodotti dei processi stessi. In altre parole, ci sono motivi intrinseci, legati alla natura e ai meccanismi fisico-chimici dell’industria pesante, a rendere ancor più difficile l’implementazione della CCS in questi contesti.
E poi c’è il versante economico: in ambito energetico, come in qualsiasi altro, è il mercato a farla da padrone e a porre regole non scritte. Tradotto, se non è conveniente non si fa; e non lo si fa almeno fino a quando non lo diventa. La domanda allora viene spontanea: è conveniente e possibile tecnicamente oggi pensare di equipaggiare un grande impianto industriale, chimico o petrolifero, con la CCS (il cosiddetto retrofit)? Per rispondere a questa domanda ci viene in aiuto un rapporto recente di Chevron. Il gigante petrolifero californiano fondato nel 1879 ha cercato di capire quanto e come la CCS impatterebbe sul sistema industriale statunitense prendendo in considerazione quasi 1400 industrie rappresentative identificate dall’Epa (Environmental Protection Agency) negli Stati Uniti. I ricercatori interni di Chevron ne hanno scartate in fase preliminare ben 700, responsabili di oltre il 50% delle emissioni degli Usa, perché gli impianti in questione “non risultano compatibili con un retrofit con CCS”.
Sfortunatamente, non finisce qui: dei 656 impianti rimanenti, il rapporto ne ha identificati solo 123 – meno del 10% – che potrebbero catturare l’anidride carbonica prodotta economicamente. Ciò a condizione – sottolineano gli autori – di attivare un’ingente quantità di sovvenzioni federali, così come la cosiddetta Enhanced Oil Recovery (Eor), di cui parleremo nel prossimo capitolo del focus. Ma ciò che stupisce di più è che sono proprio le maggiori industrie fonti di gas serra a non essere pronte e adattabili per la cattura del carbonio. Si pensi alla raffinazione dei prodotti petroliferi, che da sola conta il 4% delle emissioni totali (1.3 miliardi di tonnellate di CO2); secondo i risultati del report, solo il 19% di queste emissioni è evitabile tramite un’efficiente implementazione della CCS. Lo stesso si può dire della lavorazione dei metalli, incluso l’acciaio, per cui solo un quarto degli impianti esistenti sarebbe “trasformabile”.
In conclusione, secondo il documento di Chevron – prodotto da chi, è inutile sottolinearlo, almeno sulla carta dovrebbe essere particolarmente interessato a promuovere la CCS per ovvi motivi – solo l’8% delle emissioni del settore industriale americano sarebbero tecnicamente ed economicamente pronte per un retrofit con CCS. Lo stesso discorso, a grandi linee, può valere per contesti non troppo differenti da quello statunitense, come quello europeo, e per altri, ancora più difficili da “bonificare”, come quelli asiatici. Insomma, sostenere oggi che l’industria pesante si decarbonizzerà solo con l’ausilio della Cattura e Sequestro del Carbonio, è nella migliore delle ipotesi inaccurato, nella peggiore falso.
La soluzione migliore (a oggi): diminuzione della produzione, riciclo e rinnovabili
Ma qual è allora la direzione da intraprendere? Per rispondere, dobbiamo ragionare sull’origine della maggior parte delle enormi emissioni che il settore dell’industria pesante genera. I “colpevoli”, manco a dirlo, sono il calore e l’elettricità usati per sostenere i processi di produzione e sono generati con i combustibili fossili. Ecco allora che elettrificare i processi e decarbonizzare la rete elettrica diventa una delle soluzioni più efficaci e immediate; di questo se n’è accorto, tra gli altri, anche il World Economic Forum, che ha stimato per la produzione dell’alluminio, che il 60% della CO2 liberata dal settore potrebbe essere eliminata solo producendo elettricità con le rinnovabili. C’è poi il calore, con il suo insostenibile peso climatico (bruciare combustibili fossili per generarlo crea il 10% delle emissioni globali): è sempre l’elettricità da sole e vento che ha tutto il potenziale per fornire calore low-carbon alla stragrande maggioranza di sistemi e impianti industriali esistenti oggi, come bene hanno dimostrato gli studi di Marc Jacobson, direttore dell’Atmosphere and Energy Program di Stanford, e di Julio Firedmann, ricercatore al Center on Global Energy Policy della Columbia Climate School.
E per le altissime temperature che si raggiungono nei processi industriali? A rispondere ci pensa Heliogen , una startup Californiana che è riuscita a superare i 1000 °C utilizzando una sua tecnologia di solare a concentrazione. Insomma, sia per le grandi quantità di energia elettrica necessarie per produrre alluminio, sia per il calore ad alta temperatura necessario per la produzione di cemento, le soluzioni basate sulle rinnovabili esistono, sono economiche e sono in attesa di un rapido sviluppo. Infine, per quanto riguarda plastica, così come alluminio, acciaio e cemento il metodo migliore per ridurre emissioni e impronta carbonica dei prodotti rimane il riutilizzo dei materiali esistenti, il riciclo e il minor consumo (e di conseguenza la minor produzione). Quanto alla CCS applicata all’industria pesante, in conclusione, sono gli stessi investitori, player industriali e operatori del mercato a dirci che si tratta ancora di una tecnologia immatura e sostanzialmente “unproven”.