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Banche CFC: ecco cosa rallenta la ripresa dell’ozono

Le attuali emissioni di CFC-11 c CFC-12 provengono da materiali o dispositivi prodotti prima del ritiro globale dei CFC, considerati di per sé non pericolosi rispetto all’ozono, ma che stanno ancora rilasciando gas nocivi nell'atmosfera.

Banche CFN
Credits: Julie Geiger da Pixabay

Il MIT mette in luce l’esistenza di banche CFC, fonti di clorofluorocarburi che contrastano la ripresa dell’ozono

(Rinnovabili.it) – Nel 2016, i ricercatori del MIT (Massachusetts Institute of Technology) osservarono i primi timidi segnali di ripresa dello strato di ozono antartico. Questo traguardo ambientale era stato il risultato di decenni di sforzi convogliati nel Protocollo di Montreal, nato proprio per proteggere lo strato di ozono attraverso la graduale eliminazione della produzione di clorofluorocarburi (CFC), potenti gas serra. Sebbene l’ozono sia in via di recupero, gli scienziati hanno però scoperto l’esistenza di “banche CFC”, vale a dire fonti di emissioni inaspettatamente elevate di CFC-11 (triclorofluorometano) e CFC-12 (diclorodifluorometano), sostanze chimiche che violano il Protocollo di Montreal.

Secondo i ricercatori del MIT, gran parte delle attuali emissioni di CFC-11 c CFC-12 provengono probabilmente da materiali o dispositivi (quali ad esempio la schiuma isolante per l’edilizia, vecchi frigoriferi o sistemi di raffreddamento ormai obsoleti) prodotti prima del ritiro globale dei CFC, considerati di per sé non pericolosi rispetto all’ozono, ma che stanno ancora rilasciando gas nocivi nell’atmosfera. Inoltre, queste banche CFC perdono lentamente sostanze chimiche a concentrazioni che, se lasciate incontrollate, ritarderebbero il recupero del buco dell’ozono di sei anni e aggiungerebbero all’atmosfera l’equivalente di 9 miliardi di tonnellate di anidride carbonica.

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Le analisi sulle banche CFC, pubblicate su Nature Communications, si basano sulla combinazione di due metodi per stimare le emissioni di CFC. Il primo metodo è un approccio top-down, che esamina i CFC prodotti sulla base dei rapporti ufficiali rilasciati dai singoli paesi e confronta questi numeri con le concentrazioni effettive di gas. In questo modo, la differenza tra la produzione di una sostanza chimica e le sue concentrazioni atmosferiche fornisce agli scienziati una stima delle dimensioni delle banche CFC in tutto il mondo. Il secondo metodo è un approccio bottom-up, che utilizza i dati provenienti dalla produzione e dalle vendite di CFC dichiarati da diversi settori produttivi in una varietà di applicazioni – dalla refrigerazione, alle schiume isolanti – per stimare la velocità con cui ogni tipo di materiale e/o dispositivo si sta esaurendo nel tempo.

“Ovunque risiedano queste banche CFC, dovremmo considerare di recuperarle e distruggerle nel modo più responsabile possibile”, afferma Susan Solomon, professore di studi ambientali presso il MIT. “Alcune banche sono più facili da distruggere di altre. Ad esempio, prima di demolire un edificio, puoi prendere misure accurate per recuperare la schiuma isolante e seppellirla in una discarica”.

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Il team ha però identificato una fonte inaspettata e considerevole di un’altra sostanza chimica che riduce l’ozono, il CFC-113 (triclorotrifluoroetano). Questa sostanza veniva tradizionalmente utilizzata come solvente detergente e la sua produzione è stata vietata con un’eccezione: materia prima per la fabbricazione di altre sostanze chimiche. Infatti, si pensava che gli impianti chimici avrebbero usato il CFC-113 senza consentire perdite e, per questa ragione, l’uso del prodotto in quanto materia prima era considerato ragionevolmente sicuro. A quanto pare, però, il CFC-113 viene attualmente emesso nell’atmosfera ad un ritmo di 7 miliardi di grammi all’anno.

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