Tecniche di geoingegneria potrebbero essere finanziate intorno al 2020, ma i rischi ambientali e i costi economici sono altissimi
(Rinnovabili.it) – Tagliate le emissioni con politiche serie e dimenticate la geoingegneria. È il suggerimento di Phil Williamson, scienziato dell’Università dell’East Anglia, in un articolo apparso su Nature.
Da anni ormai diversi esperti solleticano il palato dei decisori politici con mirabolanti soluzioni tecnologiche alla crisi climatica, che permetterebbero il mantenimento dei privilegi per gli inquinatori: si va dalle mega piantagioni di alberi “dopati”, capaci di assorbire più CO2 di quelli naturali, alle tecniche di fertilizzazione degli oceani con polvere di ferro. C’è chi pensa di intervenire sulle nuvole per creare pioggia alcalina che reagisce con l’anidride carbonica e chi immagina di coltivare piante da bruciare nelle centrali elettriche per poi stoccare le emissioni nel sottosuolo (tecniche BEECS). Qualcuno suggerisce anche di irrorare il cielo con microparticelle riflettenti, capaci di respingere la radiazione solare e raffreddare il pianeta (tecniche SRM).
Tutte queste pratiche vanno sotto il termine ombrello di geoingegneria, cioè l’ingegneria del clima. Piacciono molto agli scienziati e all’industria fossile, ma si tratta di sistemi che intervengono sugli effetti e non sulle cause del riscaldamento globale, trattato come un problema tecnico più che sociale.
La trappola linguistica che ha minato la COP 21
Tuttavia, l’accordo sul clima raggiunto alla COP 21 contiene chiari riferimenti alle «emissioni nette zero», cioè ad un livello di inquinamento che con meccanismi compensativi permetta di raggiungere quella che viene chiamata «neutralità climatica». Il calcolo è aritmetico: se ad una certa quota di CO2 diffusa in atmosfera ne corrisponde una eguale sequestrata da essa, il risultato è zero. Ma solo se non si calcolano i rischi del tutto sconosciuti della geoingegneria. Pericoli che i leader globali riuniti a Parigi sembrano aver sottovalutato, grazie anche alla confusione che regna a livello di Nazioni Unite sul tema. Infatti – spiega Williamson nel suo articolo su Nature – non vi è chiarezza su ciò che va considerato “mitigazione del clima” e ciò che invece va chiamato “geoingegneria”. Negli ultimi anni, il significato di questi termini è stato sempre più confuso, con il concetto di “rimozione della CO2” incluso in entrambe le definizioni.
Tutto questo, sostiene lo scienziato, deve essere risolto, «perché mitigazione e geoingegneria hanno connotazioni psicologiche molto diverse. La prima è universalmente considerata come una cosa positiva, che riduce il rischio o il danno. La geoingegneria suscita invece sospetto, o viene liquidata come approccio high-risk, high-tech che può essere pericoloso».
Tagliare subito le emissioni, o lo farà la geoingegneria nel 2020
Per il momento, è convinto Williamson, l’azione dovrebbe concentrarsi sulla riduzione delle emissioni e non su una strategia non testata che si basa sul principio «emetti subito, rimuovi poi». I costi economici, ma soprattutto ecologici della geoingegneria, sarebbero altissimi. Ad esempio, riporta l’articolo, predisporre le colture necessarie per la bioenergia (BEECS) richiederebbe l’uso di 580 milioni di ettari di terreno, la metà della superficie degli USA, a scapito di foreste e praterie, con impatti sulla fauna e sulla sicurezza alimentare.
Tuttavia, se non si cambia passo a livello politico, potrebbe essere necessario ricorrere a queste tecniche già intorno al 2020 per rispettare il target dei 2 °C. Circa 20 miliardi di tonnellate di Co2, calcola l’esperto, andrebbero sequestrate ogni anno entro il 2100 per mantenere l’aumento della temperatura globale entro la soglia decisa a Parigi.