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Una carbon tax di frontiera, così il commercio può rispettare il clima

Un nuovo documento, redatto da T&E e Trade Justice Movement, spiega come la politica commerciale possa sostenere un'ambiziosa azione contro i cambiamenti climatici

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Due idee per rendere il commercio globale climate friendly

(Rinnovabili.it) – Può la politica commerciale sostenere un’ambiziosa azione climatica? Sì, adottando i giusti accorgimenti, come l’introduzione di misure fiscali che tengano conto della globalizzazione dei mercati. Su questa proposta hanno ragionato due organizzazioni, Transport & Environment (T&E) e Trade Justice Movement, che in un nuovo documento spiegano come allineare il settore commerciale alla lotta contro il riscaldamento globale.

 

Si parte da un dato di fatto: dagli anni ’90, gli accordi internazionali sul clima hanno in gran parte adottato un approccio “Paese specifico” per affrontare la questione del climate change. In altre parole ogni nazione è chiamata a fare la sua parte in maniera, si potrebbe dire, personale con specifici obiettivi, come nel caso degli INDC/NDC richiesti dall’Accordo di Parigi. Tuttavia, negli ultimi anni, la conclusione di numerosi accordi commerciali e finanziari, bilaterali o regionali, ha portato a una crescita esponenziale dei flussi globali di beni e di capitali oltre i confini dei Paesi. Questa crescita si è tradotta in un significativo aumento delle emissioni che non possono essere vincolate dunque ad un singolo territorio. “Pertanto, – spiega T&E – le azioni volte a contrastare il cambiamento climatico richiedono un nuovo insieme di strumenti e strategie”.

 

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Uno di questi strumenti potrebbe essere la carbon border tax adjustment (CBTA), una sorta di cabon tax di frontiera da applicare a beni e servizi che provengono da Stati e Nazioni la cui industria non è vincolata ad alcun mercato del carbonio, ossia Paesi che non hanno adottato meccanismi economici per limitare le emissioni di gas serra. La CBTA si dovrebbe basare sul prezzo della CO2 fissato dai mercati esistenti, come l’ETS europeo (da poco riformato) e in questo modo porrebbe sullo stesso piano produttori e importatori di beni e servizi, imponendo a quest’ultimi l’obbligo del pagamento di una sovrattassa calcolata sul contenuto di carbonio eccedente rispetto il benchmark di riferimento.

 

Un’idea che non è peregrina, almeno in Europa. Lo scorso anno in Italia è stata presentata un’interrogazione alla Camera indirizzata al Presidente del Consiglio dei ministri, al Ministro dell’economia e delle finanze e al Ministro dello sviluppo economico in cui si sottolineava l’importanza di considerare un sistema di Carbon Border Tax Adjustment da affiancare al nuovo ETS. Una richiesta simile è arrivata quest’anno, anche dal presidente francese Emmanuel Macron e trova il pieno appoggio anche dal capo del Fondo Monterio internazionale Christine Lagarde.

 

Un secondo meccanismo da applicare potrebbe essere l’imposizione di una carbon tax sugli introiti degli investimenti diretti esteri (foreign direct investment – FDI) derivanti dall’estrazione di carbone, petrolio e gas.

“Nel 2014 – scrive T&E – le società olandesi, britanniche e norvegesi hanno guadagnato 48 miliardi di euro dagli investimenti diretti esteri in petrolio e gas stranieri. Tuttavia, come parte dell’Accordo sul clima di Parigi, questi e altri paesi sviluppati si sono impegnati a sostenere le economie in via di sviluppo nel ridurre le loro emissioni. Per incentivare questo aspetto, la relazione chiede alle società delle nazioni sviluppate di riferire e pagare un’imposta sull’anidride carbonica equivalente alle emissioni associate ai loro redditi da IDE”.

Le risorse raccolte da un CBTA o un’imposta sui redditi dell’IDE potrebbero essere messi da parte per contribuire a finanziare i fondi climatici esistenti a sostegno di misure di adattamento e mitigazione nei paesi più poveri.