Uno studio del JRC simula al computer l’evoluzione di comunità di microorganismi una volta in contatto con i “gemelli digitali” dei “virus zombie” rilasciati dal terreno ghiacciato in scioglimento nell’Artico. Il rischio che riescano a sopravvivere e a impattare sull’ecosistema esiste, anche se è sostanzialmente impossibile prevederlo con precisione
Il cambiamento climatico “porta alla ribalta interrogativi sul potenziale” dei virus dal permafrost
(Rinnovabili.it) – L’idea che dei “virus zombie” possano emergere dal terreno (non più) ghiacciato della Siberia o di un’altra regione artica e scatenare epidemie è al centro di libri, film e serie tv. Non mancano gli studi che testano questa ipotesi riportando in vita dei virus prelevati nell’Artico e monitorandone la capacità di infettare organismi unicellulari o amebe. Ma qual è realmente il rischio rappresentato dai virus dal permafrost? Cosa accadrebbe se, invece che in laboratorio, questi virus si risvegliassero nel loro ambiente, ma decine di migliaia di anni più tardi? Quali sono i rischi per gli ecosistemi e, a cascata, per l’uomo?
A queste domande prova a rispondere con un approccio innovativo uno studio del Joint Research Centre della Commissione Europea. Il team di ricercatori guidato da Giovanni Strona ha usato simulazioni al computer per prevedere le possibili interazioni tra i virus dal permafrost e le comunità di microorganismi con cui potrebbero entrare in contatto al momento del disgelo. È il primo studio che prova a testare concretamente queste ipotesi e a calcolarne il rischio ecologico.
Se, finora, l’argomento è stato degno più che altro del campo della fiction, oggi le condizioni stanno cambiando. “I tassi senza precedenti di scioglimento dei ghiacciai e del permafrost stanno ora offrendo a molti tipi di microrganismi dormienti nei ghiacci concrete opportunità di riemergere, portando alla ribalta interrogativi sul loro potenziale”, scrivono gli autori in apertura del loro studio, pubblicato ieri su PLOS Computational Biology.
Quanto sono pericolosi i virus dal permafrost?
La risposta breve alla domanda se esiste un pericolo rappresentato dai virus dal permafrost è “sì”. Ma i dettagli sono fondamentali per mettere questo pericolo nella cornice più adatta.
Gli scienziati del JRC sono giunti a questa conclusione dopo aver impostato due diverse simulazioni. In una, una comunità di microorganismi si trova alle prese con un gemello digitale di un agente patogeno “zombie”, mentre nella seconda (la comunità di controllo) il virus è assente. Gli esperimenti simulano l’evoluzione della comunità e permettono di monitorare quanti e quali cambiamenti avvengono al suo interno.
Il risultato? I virus dal permafrost “potrebbero spesso sopravvivere”, anche se per periodi di tempo non troppo lunghi. Non è infatti scontato che i virus riescano ad adattarsi sufficientemente in fretta in un ambiente, in un ecosistema che si è evoluto senza di loro per 40-50mila anni o più. Più riescono a prolungare la sopravvivenza, più aumentano le loro chance di adattamento. È questa la parte della simulazione su cui si è concentrato il team del JRC.
In alcuni casi, infatti, i “virus zombie” “sono diventati eccezionalmente dominanti nella comunità invasa”. La percentuale non è alta ma è rilevante: il 3,1% dei casi. Qual è l’effetto, però? Nella stragrande maggioranza dei casi, anche se riescono a sopravvivere a lungo, i vecchi-nuovi virus “invasori” non portano a sconvolgimenti nella popolazione di microorganismi che viene attaccata da loro. Ma non in tutti i casi.
“In pochi casi altamente imprevedibili (1,1%), gli invasori hanno provocato perdite sostanziali (fino a -32%) o guadagni (fino a +12%) nella ricchezza totale delle specie”, concludono gli autori dello studio. Cosa significa? L’impatto, quando esiste ed è sensibile, non è sempre “negativo” o apocalittico. Esiste la possibilità che i patogeni riducano e di molto le comunità ospiti, così come esiste la possibilità che queste reagiscano, innescando un processo di co-evoluzione con i virus. E quindi aumentando la loro diversità biologica intrinseca. Impossibile, però, avere una stima più precisa: secondo gli autori non si può prevedere come e quando un virus riuscirà a diventare prevalente.
Tutto questo vale per i microorganismi, ma non dice molto sul rischio per la salute umana. “Mentre il nostro lavoro si concentra sulle implicazioni ecologiche delle invasioni alla scala della comunità microbica, gli antichi patogeni sono anche una potenziale minaccia per la salute umana, sia come agenti diretti di malattie sia come potenziali fonti di nuovi rischi zoonotici, un aspetto molto rilevante argomento alla luce della recente pandemia di COVID-19”, notano gli autori. Per quantificare il rischio per l’uomo, il metodo usato in questo studio può essere un valido supporto: “Il verificarsi di eventi simili è intrinsecamente imprevedibile, ma strutture di modellazione come la nostra possono offrire un’opportunità unica per migliorare la valutazione del rischio quantificando formalmente le probabilità che gli antichi invasori prosperino nelle comunità moderne”.