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Il nuovo clima è già terribile, ma se non ci muoviamo potrebbe anche peggiorare

A quale altra catastrofe dovremo assistere prima di muoverci nella direzione giusta?

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Via depositphotos.com

di Vittorio Marletto

Non è giusto scrivere di cose scientifiche sulla spinta dei fatti di cronaca o delle emozioni, tuttavia questo 2023 ancora nemmeno finito ci ha fatto davvero sperimentare la paura del presente, e del futuro, con un nuovo clima davvero terribile, e la nostra sostanziale impreparazione ad affrontarlo.

Che in Italia siamo in un nuovo clima non lo dicono solo i dati ma anche la chiara percezione di chi come me da giovane ha sperimentato quello vecchio, diciamo degli anni sessanta e settanta, quando ricordiamo bene gli annunci un po’ preoccupati alla televisione perché il giorno successivo ci sarebbe stata “afa” a Roma, con temperature massime previste a 33 gradi.

Oggi una previsione di 33 gradi in estate ci fa tirare un respiro di sollievo, perché le temperature non andranno ai 38 o addirittura oltre i 40. A Roma l’estate 2023 ha visto almeno due potenti ondate di calore, una in luglio e una in agosto (dopo Ferragosto!), con temperature che hanno sfiorato e superato livelli che di solito attribuivamo solo all’Africa. E leggiamo addirittura che in Francia quattro vendemmiatori sarebbero morti raccogliendo uva nella Champagne perché i 40 gradi sono stati toccati e superati in settembre.

I dati climatici regolarmente aggiornati da Ispra (Istituto superiore protezione e ricerca ambientale) confermano, le temperature estive degli anni Settanta sono solo un ricordo, oggi le estati sono in media almeno un grado più calde di allora, e le temperature massime almeno di due. Il 2022 è stato un record assoluto nel suo complesso, con uno scarto di ben 1,23 gradi dalla media 1991-2020, che a sua volta era già oltre un grado superiore rispetto al trentennio precedente.

Nello scorso maggio, dopo mesi di lamentele sulla tremenda siccità del Po, tutta la pioggia che non era caduta prima è venuta giù in pochi giorni compresi tra 1 e 17 maggio, concentrandosi particolarmente sulle colline della Romagna e provocando un disastro di proporzioni storiche, con 23 fiumi esondati e oltre 400 frane nelle zone collinari. L’acqua ha allagato Faenza, Forlì, Cesena e una fila di centri minori della pianura romagnola, ha spazzato via ponti e strade, e ucciso almeno 15 persone. Il prezioso centro di Ravenna non è finito sotto una coltre di fango solo perché alcuni eroici agricoltori hanno acconsentito al dirottamento della piena sui loro terreni, perdendo così tutto il raccolto.

Eppure il disastro della Romagna è niente rispetto a quanto si è visto in Libia, dove nella notte tra 11 e 12 settembre la città di Derna è stata letteralmente spazzata via dopo che un piccolo uragano mediterraneo aveva fatto scoppiare di pioggia due dighe a monte della città. Mentre scrivo si raccolgono sulle spiagge i cadaveri portati in mare dalle acque, e mancano all’appello forse 20mila persone, che fino al giorno prima nemmeno immaginavano di poter fare una simile fine.

L’uragano di cui sopra, dal gradevole nome di Daniel, aveva già provocato enormi guai in Turchia europea, Bulgaria e Tessaglia, la zona prevalentemente agricola nei paraggi di Salonicco, dove tutta la campagna è stata inondata per centinaia di chilometri quadrati. Prima dell’arrivo di Daniel però nelle stesse zone erano bruciati 1000 kmq di bosco nell’area protetta di Dadia-Lefkimi-Soufli, probabilmente il più grande incendio forestale d’Europa dal dopoguerra.

Il mondo scientifico globale che si occupa di clima non ha alcun dubbio, tutto quel che sta accadendo, sempre più in fretta e sempre più forte, è dovuto alla nostra pervicace ossessione per l’energia fossile. Solo in Italia 40 milioni di automobili girano a petrolio emettendo circa 65 milioni di tonnellate di anidride carbonica, praticamente quanto tutta la Romania. Secondo i dati disponibili nel 2022 gli italiani bruciavano quasi 69 miliardi di metri cubi di gas, corrispondenti a circa 140 milioni di tonnellate di CO2, più di tutta l’Olanda. Le emissioni italiane, pari a 417 Mton CO2eq nel 2021, sono in effetti per l’80% dovute ai consumi energetici.

Ma per cambiare, come scrive nel suo ultimo libro il ricercatore californiano Mark Jacobson, “Non servono miracoli” ovvero abbiamo già praticamente tutto quel che ci serve per liberarci dalle fonti fossili e dalle loro malefiche emissioni in atmosfera.  Il potenziale nazionale di energia solare ed eolica è immenso e potrebbe senz’altro consentire al nostro paese di diventare 100% rinnovabile entro una ventina d’anni, eppure da dieci anni siamo quasi fermi con le installazioni, nonostante le invocazioni di Confindustria (!), che chiede solo autorizzazioni perché i soldi da investire ci sono in abbondanza.

Nel dibattito pubblico si sente parlare di ogni sorta di stranezze, dai reattori nucleari tascabili alla cattura sotterranea della CO2, per non parlare dell’idrogeno di tutti i colori, quando quel che ci serve è una rete elettrica adeguata alla transizione che da poche grandi centrali termoelettriche ci condurrà ad appoggiarci su una miriade di impianti rinnovabili medio piccoli distribuiti un po’ ovunque, e dotata di adeguate capacità di stoccaggio elettrico, per pareggiare sempre l’energia prodotta con quella richiesta.

Se si può fare perché non lo facciamo? A quale altra catastrofe dovremo assistere prima di muoverci nella direzione giusta? Non si può attendere oltre perché il rischio più grave è che si tenti di correre ai ripari quando sarà ormai troppo tardi per fermare il passaggio dalla crisi al collasso climatico

di Vittorio Marletto, Energia per l’Italia