Alla COP15 si decide come proteggere gli ecosistemi da qui al 2030 e in che modo la tutela della diversità biologica può rafforzare il contrasto del cambiamento climatico
Il summit del 7-19 dicembre stabilirà il Global Biodiversity Framework per il dopo 2020
(Rinnovabili.it) – Sono passate poche settimane dalla COP27 di Sharm e un altro summit internazionale decisivo è ai blocchi di partenza. Alla COP15 di Montréal, tra il 7 e il 19 dicembre, 20mila delegati dovranno scrivere il nuovo accordo globale sulla biodiversità post-2020. Il testo che fissa gli obiettivi da raggiungere entro il 2030 e che, almeno in teoria, dovrebbe fare tesoro del disastro degli Aichi target: il mondo, infatti, non ha raggiunto nessuno degli obiettivi che si era dato con scadenza 2020.
Cos’è la COP15 e perché è importante?
COP15 è la sigla che identifica il 15° incontro della Conferenza delle Parti per la biodiversità. Come il processo delle COP sul clima si basa sull’Unfccc e quindi sulla Conferenza di Rio de Janeiro del 1992, la COP15 sulla biodiversità fa riferimento alla Convenzione sulla Diversità Biologica (CBD), un trattato internazionale che è nato nello stesso anno. Insieme alla meno nota Convenzione contro la desertificazione, costituiscono le tre ‘convenzioni di Rio’. È su questi accordi che si basa, da 30 anni, la diplomazia internazionale su tutti i temi legati alla tutela degli ecosistemi e al contrasto alla crisi climatica.
Il summit di Montréal è fondamentale per due motivi. Primo, dall’incontro canadese usciranno i parametri, le priorità e gli obiettivi con cui il mondo proverà a tutelare l’ambiente nei prossimi 8 anni. Ma la posta in palio con l’accordo globale sulla biodiversità post-2020 è più alta. Si tratta, infatti, di un tassello fondamentale per rafforzare l’azione contro il cambiamento climatico e i suoi effetti sul Pianeta in questo decennio cruciale. Per questo, da più parti si spera che il summit produca una sorta di ‘accordo di Parigi sulla biodiversità’.
Dalle decisioni della COP15 (e dalla capacità dei paesi di rispettarle in futuro) dipendono, in parte, le chances di contenere il riscaldamento globale sotto gli 1,5 gradi e di limitare i suoi impatti peggiori sugli ecosistemi. Un buon accordo sul Global Biodiversity Framework (GBF), quindi, dovrebbe permettere anche di frenare (e invertire) la perdita di diversità biologica su scala planetaria che è in corso. E che, per la maggioranza degli scienziati, costituisce la 6° estinzione di massa nella storia della Terra, un evento in grado di sovvertire le basi stesse della vita umana sul Pianeta.
30 x 30
Nonostante tutte le aspettative e tre rinvii della conferenza (che avrebbe dovuto tenersi nel 2020), i negoziati preliminari verso la COP15 non hanno fatto molti progressi. L’unico tema su cui c’è un consenso trasversale sembra quello di fissare l’obiettivo globale di mettere sotto qualche forma di tutela almeno il 30% della superficie del Pianeta entro il 2030 (a cui ci si riferisce come target 30×30). Anche qui, comunque, qualche dubbio rimane. Per l’IPCC il 30% sarebbe la soglia minima per garantire la resilienza degli ecosistemi, motivo per cui molti paesi spingono per alzare la percentuale. Mentre diversi popoli indigeni temono che già il solo 30% si traduca in accaparramento di terre ai loro danni.
Poco, pochissimo rispetto a quello che l’accordo globale sulla biodiversità post-2020 dovrebbe contenere. Per questa ragione, la Cina – che organizza la COP15 ma ha scelto di non ospitarlo a Kunming a causa delle restrizioni pandemiche e alla politica zero Covid ancora in vigore a Pechino – non ha invitato i capi di Stato e di governo a Montréal, dove ha sede la CBD. La premessa non è delle migliori.
I temi più delicati dell’accordo globale sulla biodiversità post-2020
Finanza – Come alla COP27, anche in Canada il problema di chi mette i soldi per finanziare le azioni, quanti soldi mobilitare e a beneficio di chi, sarà uno dei punti più caldi dei negoziati. Dei 22 target post-2020 in discussione, questo (il numero 19) è quello su cui i testi negoziali hanno ancora il maggior numero di parentesi: ben 77.
La finanza per la biodiversità incontra ostacoli in gran parte sovrapponibili a quelli della finanza per il clima, che hanno rallentato per anni sia l’adozione di un nuovo target globale sia lo stabilimento di un fondo per perdite e danni (l’unico risultato davvero positivo raggiunto alla COP27). Ma ne ha anche di più. Ad esempio, non è data per scontata l’applicazione del principio delle responsabilità comuni ma differenziate (deciso a Rio nel ‘92) che, di fatto, sposta l’onere della finanza sui paesi sviluppati. Per poter contribuire anche loro ai fondi per la biodiversità, i paesi meno sviluppati chiedono un taglio del debito.
Digitalizzazione delle informazioni genetiche – Un altro tema su cui non c’è consenso (e può spaccare i negoziati) si nasconde dietro una sigla sconosciuta ai più: DSI. DSI sta per digital sequence information e si riferisce alle possibilità di utilizzo di un database globale delle informazioni genetiche contenute nel genoma o codificate dal genoma di una determinata risorsa genetica (piante, animali, …).
Lo scambio di informazioni genetiche è regolato dal protocollo di Nagoya e definisce le forme di accesso che garantiscono una distribuzione equa e giusta di eventuali profitti derivanti da tali informazioni. Ma il protocollo è contestato da più parti e fa a pugni con la prassi accademica di pubblicare i sequenziamenti in open access. Può sembrare una questione secondaria e zeppa di inutili tecnicismi, in realtà dai negoziati sul DSI dipende in parte la ricerca di soluzioni farmaceutiche o tecnologiche realizzata a partire da sequenze di DNA o RNA presenti in natura.
False soluzioni – Alla COP27 la dicitura ‘nature-based solutions’ è entrata per la prima volta in un documento ufficiale Unfccc. Il tema delle soluzioni basate sulla natura, con tutta la sua ambiguità, terrà banco anche a Montréal. Qual è il punto? L’accordo globale sulla biodiversità post-2020 può tenere la barra dritta e scegliere di puntare solo su soluzioni che hanno comprovati effetti positivi sugli ecosistemi. Oppure può allargare le maglie, giocare sulle definizioni, e fare in modo che anche pratiche dubbie o deleterie per la natura ricevano la patente di ‘soluzioni’.
In teoria le soluzioni basate sulla natura avrebbero un potenziale di mitigazione delle emissioni globali di 10-12 Gt CO2e l’anno, abbastanza per evitare un aumento della temperatura di 0,3°C. molto però dipende da come vengono implementate e da quanto sono larghe le maglie definitorie.
Gli altri temi in discussione
Oltre a questi aspetti più spinosi, la COP15 discuterà anche di altri temi. Nessuno dei quali è controverso come i precedenti, ma su cui comunque non c’è ancora un consenso di massima in vista. Il più importante forse è il tema dell’inquinamento agricolo, e quindi dei pesticidi. Molti paesi sono a favore di fissare i parametri per un abbandono graduale dei prodotti fitosanitari dannosi, ma una fetta non piccola di paesi non vuole fissare date precise o quantificare le riduzioni necessarie.
Si dovrà poi trattare il tema dei sussidi ambientalmente dannosi, che secondo un recente rapporto dell’Unep valgono fra i 500 e i 1.000 mld $ l’anno. Ovvero una cifra da tre a sette volte superiore a quella ritenuta necessaria come finanza per la biodiversità. La COP15 dovrà anche toccare i diritti dei popoli indigeni, il ruolo riservato ai diritti umani e il tema dei gene drive, una biotecnologia che permette di diffondere in intere specie una serie di informazioni genetiche (modificate).