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Architettura usa e getta per i Giochi londinesi

Taglio del nastro per il London 2012 Water Polo Arena che ospiterà le finali olimpiche di pallanuoto nella capitale inglese

Il 2 aprile sono stati ultimati i lavori di realizzazione dell’impianto che ospiterà le finali olimpiche di pallanuoto, torneo nel quale l’Italia punta ad un risultato di rilievo, se non alla vittoria, in entrambi i tornei (maschile e femminile).

La struttura, in grado di ospitare 5000 spettatori, è stata costruita nei pressi di Stratford Station (facilmente accessibile con i mezzi pubblici), lungo le rive del fiume, a Nord del Centro Aquatics, in soli 13 mesi. I primi di maggiosi svolgerà un torneo preolimpico, utile per testare l’impianto e, dal punto di vista sportivo, per avere un’idea più chiara sui reali valori in campo.

La “London 2012 Water Polo Arena” (il nome non concede spazio alla fantasia) è facilmente riconoscibile per il colore argento e il tetto realizzato in cuscinetti di PVC riciclato (e privato dei ftalati) che forniscono un isolamento supplementare e non favoriscono la condensa.Alla fine delle Olimpiadi ne è previsto l’abbattimento in base al principio del minor impatto possibile sulla metropoli con impianti inutilizzabili eredità dell’evento olimpico. E’ già pianificato un piano di riutilizzo dei materiali di risulta, sempre in omaggio all’imperativo di “Olimpiadi a zero rifiuti”.
Altro elemento interessante riguarda l’impiego dell’acqua. Ci vorranno circa 3 milioni di litri per riempire le due piscine (quella di gara e quella di riscaldamento), ma bagni e strutture sanitarie (rubinetti e docce) sono pensati per ridurre del 40% il consumo. Probabilmente innovativa la decisione di realizzare un impianto che non prevede ascensori, ma l’accesso attraverso una serie di rampe utilizzabili anche dai disabili con sedie a rotelle, visto che sono previsti 40 posti esclusivamente per loro (nessun impianto italiano con gli ascensori forse è in grado di fare meglio!).
La Water Polo Arena risponde, almeno nelle intenzioni, ai pilastri dello sport sostenibile e si inserisce nella tradizione degli impianti “usa e getta”, costruiti e poi abbattuti per evitare che diventino “whiteelephants” termine inglese per definire un oggetto costoso ma inutile.

Un rischio, questo, al quale non sono riusciti a sottrarsi neanche gli organizzatori di quella è stata definita, universalmente, l’Olimpiade più green della storia, in grado di guadagnarsi il riconoscimento dall’UNEP di Global 500 Award nel 2001: Sydney 2000. Se Lillehammer 1994, nella storia recente dello sport, lanciò una serie di “provocazioni” frutto di una sintesi tra una lunga tradizione ecologista scandinava e un generale sentimento ambientalista all’inizio degli anni ’90, Sydney rappresenta il punto più alto raggiunto, nell’ambito della sostenibilità, da un evento planetario come solo le Olimpiadi possono essere.

L’idea di realizzare dei Giochi profondamente rispettosi della natura nasce a cavallo tra la Conferenza di Rio (1992) e le Olimpiadi di Lillehammer (1994), in un periodo in cui la sensibilità ambientalista, seppure agli esordi, ha la forza travolgente di un’idea rivoluzionaria. Il Comitato organizzatore sintetizza queste pulsioni e si presenta al giudizio del CIO con un sogno che lascia tutti ammaliati: la possibilità di dimostrare che i Giochi possono integrarsi perfettamente con l’ambiente circostante. Così Sydney, il 24 settembre del 1993, ottiene i Giochi. In sette anni, forte anche dell’esperienza di Lillehammer, il Comitato Organizzatore coinvolge le associazioni ambientaliste, come Greenpeace, nella definizione delle linee guida ambientali e nelle decisioni strategiche. Le stesse linee guida per lo svolgimento di Grandi Eventi sostenibili diventeranno, poi, standard e paradigma per il futuro.

Le XXVII Olimpiadi, le prime del nuovo millennio, furono l’occasione per mostrare al mondo le più recenti tecnologie eco. Venne utilizzatal’energia solare per alimentare gli impianti come mai in passato; il Villaggio Olimpico e i trasporti pubblici furono pensati per ridurre le emissioni, diminuendo gli spostamenti e utilizzando vettori specifici. Il Nuovo Galles del Sud venne riconvertito da zona industriale dismessa a un insieme di arene, edifici, aree umide e parchi naturali, rappresentando una delle eredità più importanti di quei Giochi.

L’altra faccia della medaglia riguarda la gestione postuma dei magnificenti impianti realizzati. Lo stadio olimpico, sede della cerimonia di apertura, denominato Stadium Australia (ma oggi noto come ANZ Stadium) e il SuperDome (oggi denominato Allphones Arena,allorasede dei tornei di Basket e Ginnastica), per anni non hanno trovato un impiego sufficiente a ripagare dei costi sostenuti interamente da privati. Lo Stadium, in particolare, ha subito diversi lavori di ristrutturazione miranti soprattutto alla riduzione del numero degli spettatori (dai circa 120.000 a 80.000) e all’adattamento alle esigenze dei diversi eventi ospitati.
Lo stesso cuore nevralgico dei Giochi di Sydney, il Sydney Olympic Park, ha per anni vissuto in un limbo, rischiando di non riuscire a trovare una collocazione nella vita sociale della città, essendo troppo distante dal centro. Dopo qualche anno dai Giochi, alcuni critici lo ribattezzarono Sydney Jurassic Park, a sottolineare l’assoluta inutilità. Un rischio che probabilmente c’è stato, ma che è stato fugato se è vero che a distanza di oltre 10 anni in questa zona periferica della città si svolgono oltre 5000 eventi sportivi l’anno; una riqualificazione che dimostra come Sydney 2000, anche in questo rarità nelle Olimpiadi recenti, è riuscita a vincere la sua scommessa. Londra 2012 sarà in grado di fare altrettanto?

 

di Antonio Ungaro