Dalla desalinizzazione l’Italia ricava solo lo 0,1% dei suoi prelievi idrici, nonostante il Belpaese abbia una delle linee di costa più estese al mondo. Il decreto cerca di potenziare questa soluzione con semplificazioni normative
Per ogni litro di acqua dolce prodotta, la desalinizzazione genera 1,5 l di acqua ipersalata
(Rinnovabili.it) – L’Italia sta attraversando una fase di siccità estrema che non ha precedenti negli ultimi secoli ed è aggravata da temperature mediamente più alte. Per far fronte a questa situazione, il governo ha messo in campo diversi strumenti, tra interventi emergenziali e altri di tipo invece strutturale. Oltre al riuso delle acque reflue in agricoltura, la manutenzione prioritaria degli invasi, la cabina di regia e il commissario straordinario, il recente Decreto Siccità (dl 14 aprile 2023 n.39) ha anche modificato la disciplina degli impianti di desalinizzazione. Una pratica che oggi, in Italia, pesa soltanto per lo 0,1% dei prelievi idrici nonostante il Belpaese abbia una delle linee di costa più estese al mondo.
Come cambia la desalinizzazione in Italia con il Decreto Siccità
La stella polare delle modifiche effettuate alla disciplina degli impianti è snellire le procedure per liberare il potenziale della desalinizzazione. A questo è dedicato l’art.10 del Decreto Siccità, che per prima cosa limita l’assoggettamento alla VIA per i soli impianti con capacità pari o superiore a 200 litri al secondo. In precedenza, secondo la legge “SalvaMare” (legge 17 maggio 2022 n.60), tutte queste opere dovevano ricevere preventivamente una valutazione di impatto ambientale positiva. Il provvedimento aveva quindi allungato i tempi di messa in opera anche per gli impianti con capacità più limitata e, ragionevolmente, con un impatto ambientale minore e/o contenuto.
Ulteriore semplificazione: gli impianti sono ammissibili semplicemente “in situazioni di comprovata carenza idrica” come quella attuale. Il decreto cancella altri due requisiti che erano finora necessari: aver fatto tutto il possibile per contenere le perdite dagli acquedotti (sono al 42,2% in Italia) e per razionalizzare l’uso di risorsa idrica, e inserire i dissalatori nei piani di settore in materia di acqua e nei piani di settore sulla base di un’analisi costi benefici. Tutti gli impianti per rendere potabile o utilizzabile in agricoltura l’acqua di mare non sono più definiti di competenza statale.
C’è poi una novità per gli scarichi. Vengono definiti i criteri per i reflui da dissalazione, un passaggio importante dato che per ogni litro di acqua dolce prodotto, in media, genera un litro e mezzo di acqua ipersalata. Oltre alle altre prescrizioni generali per i reflui industriali, l’incremento percentuale massimo di salinità delle acque dove vengono scaricati i reflui dato dal rilascio della salamoia di risulta “entro un raggio di 50 metri dallo scarico (zona di mescolamento), rispetto alla concentrazione salina media dell’acqua marina nell’area di interesse, è pari a ΔSalmax<5%”.
I valori limite di emissione restano invariati rispetto a quelli già previsti per le acque reflue industriali (salvo per cloruri e solfati). Per altre sostanze eventualmente presenti negli scarichi valgono invece i limiti dell’art.101 (cioè i criteri generali della disciplina degli scarichi), e in ogni caso devono rispettare gli obiettivi di qualità ambientale disciplinati dal Testo Unico sull’Ambiente (dl 152/2006).