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L’accesso all’acqua potabile, un bene comune

accesso all'acqua potabile
Credit: Pxhere- (CC0 1.0)

 

 

(Rinnovabili.it) – Facile come bere un bicchiere d’acqua. Eppure per molti – troppi – non è affatto facile. Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità “tra i 2,1 miliardi di persone che non hanno accesso sicuro all’acqua, 844 milioni non dispongono neanche di basilari servizi relativi all’acqua potabile”. Il tema è stato al centro della Conferenza “La gestione di un bene comune: accesso all’acqua potabile per tutti” organizzata dal Dicastero per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale in collaborazione con le ambasciate di Francia, Italia, Monaco, Perù e Stati Uniti d’America presso la Santa Sede con il patrocinio della Pontificia Università Urbaniana.

L’Agenda globale per lo sviluppo sostenibile delle Nazioni Unite ha fissato 17 Obiettivi per lo Sviluppo Sostenibile (SDG) da raggiungere entro il 2030. L’Obiettivo 6 si propone di «garantire a tutti la disponibilità e la gestione sostenibile dell’acqua e delle strutture igienico sanitarie». Scorrendo con attenzione i diversi Obiettivi, ci si rende conto che molti di essi non saranno raggiungibili senza l’accesso all’acqua: come ha affermato anche Papa Francesco nell’enciclica Laudato si’, «l’accesso all’acqua potabile e sicura è un diritto umano essenziale, fondamentale e universale». Il testo papale ci pone davanti alle nostre responsabilità per il futuro, è un’esortazione a non abbandonare chi è intorno a noi, a dare un valore concreto alle nostre azioni che vanno a incidere sui poveri – ovvero sulle persone.

 

Senza acqua non c’è vita, né umana, né vegetale, né animale: la mancanza di acqua fa la differenza tra la vita e la morte. La sua gestione implica una responsabilità politica e morale verso i troppi che non hanno accesso all’acqua potabile: se l’acqua è un diritto, non va trattata come una merce e come cittadini dobbiamo custodire questo bene prezioso che appartiene all’intera comunità umana, un bene comune da condividere. Sullo stesso piano si pone la Dichiarazione di Brasilia – «La natura è una e tutto è interconnesso, anche se potremmo frammentarla per finalità amministrative, accademiche, legali o giudiziarie» – come ha affermato Antonio Herman Benjamin (giudice della Suprema Corte Nazionale del Brasile) spiegando quali sono i problemi legali correlati al diritto all’acqua. Tutti abbiamo un impatto sulla Terra con il nostro modus vivendi: non è vero che inquinano solo i ricchi e i poveri no. Il nodo è quindi concentrare le azioni sullo sviluppo umano ricordando che la natura ci offre i suoi beni gratuitamente: a maggior ragione dobbiamo rispettarli e averne cura.

 

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La prima parte della Conferenza ha posto la riflessione su temi etici fra cultura e spiritualità attraverso la testimonianza di rappresentanti di religioni diverse (Cattolica, Islamica, Induista), proprio per sottolineare l’universalità del tema. Tutte le religioni hanno come nucleo la vita, e l’acqua è una comune metafora della vita: l’immersione nell’acqua simboleggia la purificazione, l’emersione è la rinascita.

Secondo George Panyin Hagan, ex-presidente della Commissione nazionale sulla Cultura del Ghana, servirebbe una dimensione spirituale della governance: la cura dell’ambiente ha un impatto diretto sulla società, e il mantenimento dell’ordine morale e sociale è nelle mani degli uomini. Il degrado avanza velocemente non solo per la crescita demografica, ma anche per l’azione umana: pensiamo, ad esempio, agli effetti nefasti dell’agricoltura non sostenibile sull’ambiente e quindi sull’acqua.

 

Particolarmente toccante è stata la testimonianza dal Mozambico di Lucia M. M. Adamo, che coordina a Chitima il progetto O Viveiro, un centro di accoglienza e formazione per bambine e ragazze. La città di Chitima si trova vicino a un fiume, ormai prosciugato dalla siccità degli ultimi anni. Ma l’acqua è vita, così la gente scava pozzi rudimentali per trovare l’acqua, e sorgono dispute per chi abbia diritto ad accedervi. Tuttavia, essendo i pozzi poco profondi, l’acqua è inquinata da detergenti ed escrementi, ma la gente la beve lo stesso con le conseguenze che possiamo immaginare come diarrea, colera, infezioni urinarie. O Viveiro finanzia anche lo scavo di veri pozzi, perché trovare acqua potabile significa non solo garantire igiene e quindi buona salute, ma anche la possibilità di ospitare e far studiare le bambine. Il progetto, infatti, sostiene lo sviluppo femminile: in condizioni di povertà estrema e di analfabetismo, come in Mozambico, le donne sono il motore della famiglia, primo nucleo della società. Favorirne la formazione vuol dire promuovere la crescita della popolazione locale.

 

L’acqua, quindi, ha valore anche per l’istruzione e l’emancipazione dalla povertà: al n. 6 dei SDG si collegano gli obiettivi 2 (sconfiggere la fame), 3 (salute e benessere) e 4 (istruzione di qualità). Dare priorità a chi è rimasto indietro significa annullare un gap: la politica orientata al rispetto dei diritti umani e la tecnologia possono fare molto per raggiungere gli obiettivi dell’Agenda 2030. L’interconnessione tra gli Obiettivi 6 e 3 è più che mai evidente. L’accesso al servizio dell’acqua è diverso dalla disponibilità in natura, ha sottolineato Léo Heller – relatore speciale dell’Onu sui Diritti umani all’acqua potabile e ai servizi sanitari – ricordando che la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani prevede all’art. 3 il diritto alla vita, all’art. 25 quello all’alimentazione, alle cure mediche, ai servizi sociali, nonché cure e assistenza per la maternità e l’infanzia, all’art. 26 il diritto all’istruzione: non sono anche questi diritti collegati a quello all’acqua potabile?

 

Nel macroscenario, l’acqua è un fattore di connessione fra i tanti problemi socio-ambientali e va amministrata come un veicolo per la pace, ha spiegato Pietro Sebastiani, ambasciatore d’Italia presso la Santa Sede. Nel 2025 un quarto del Pianeta non avrà più acqua: una situazione che porterà a migrazioni e guerre. Le ripercussioni saranno pesanti sull’ambiente e sull’ecosistema, e quindi sull’alimentazione in termini di produttività agricola, fertilità della terra, varietà biologica, servizi igienico-sanitari: tutti fattori che mineranno la stabilità socio-politica. I SDG ruotano tutti, in un modo o nell’altro, intorno all’acqua: gestire in comune le risorse idriche in calo e stabilire una governance internazionale sono lei chiavi per raggiungere questi obiettivi fondamentali. Il degrado dell’ecosistema ha riflessi sociali gravi e l’accesso all’acqua – un diritto essenziale – è la condizione per raggiungere gli altri obiettivi dell’Agenda 2030 e creare un nuovo e sostenibile futuro.

 

Nel mondo, solo il 40% delle persone ha servizi igienici di base. «Come sarebbe vivere senza acqua? L’ho provato, e ho deciso di fondare Waterlines», ha esordito David W. Douglas, presidente dell’ong che dal 1986 fornisce finanziamenti e supporto tecnico a progetti per portare l’acqua potabile nelle comunità rurali dei paesi in via di sviluppo. Qui non ci sono né acqua né sapone, i bagni non esistono, negli ospedali si usa l’acqua sporca e quella potabile è un miraggio. «Sui giornali si parla di Ebola e colera, ma il più grande problema sanitario è la mancanza d’acqua che facilita la diffusione delle malattie», ha insistito Douglas.

 

L'accesso all'acqua potabile, un bene comune

 

Concretezza ed economia circolare per un uso sostenibile dell’acqua caratterizzano gli interventi di Caritas Internationalis per aumentare il reddito e la sicurezza alimentare delle popolazioni locali, come si evidenzia dai casi riportati da Adriana Opromolla, responsabile dell’advocacy internazionale, Alimentazione e Cambiamento climatico. In Cambogia, ad esempio, gli interventi sono volti a ridurre i danni dopo un tifone e a prevenire quelli dovuti alle inondazioni future: le barriere water-gate sono un’ottima protezione di emergenza dalle inondazioni e hanno permesso di conservare e incanalare le acque preservando la percorribilità delle strade. In Pakistan gli interventi di irrigazione a goccia hanno permesso di risparmiare acqua e ottimizzare l’uso di quella disponibile. Anche in questi casi è evidente che l’accesso all’acqua è la chiave per aiutare le persone a uscire dalla povertà; ma la tecnologia non basta senza buone politiche, senza formazione e senza coinvolgere le comunità locali in attività che diano prospettive di sviluppo in un’ottica di lungo periodo.

 

La Fondazione Giovanni Paolo II per il Sahel, nata nel 1984 dopo una drammatica siccità, agisce con lo stesso approccio pragmatico nel campo dell’agricoltura e dell’allevamento utilizzando energie rinnovabili. Inoltre porta avanti programmi di formazione e di educazione alimentare rivolti anche alle donne, di cui la Fondazione riconosce il ruolo fondamentale nella lotta alla povertà.

 

Essenziale ma sferzante la domanda posta da Milagros Couchoud, presidente dell’Istituto Mediterraneo dell’Acqua e membro del Comitato tecnico e scientifico della Fondazione “Principe Alberto II di Monaco”: «C’è acqua per tutti sul Pianeta?». L’acqua è sempre la stessa – solo il 3% è dolce, il 75% di questa è allo stato solido, molta è nelle falde e solo lo 0,6% è in superficie – ma le persone sono sempre di più. È evidente che la tecnologia da sola non è sufficiente se non si accompagna a una buona gestione da parte dell’uomo che si traduce in uso trasparente dei soldi, leggi che regolamentino il settore, conoscenza delle risorse idriche in ogni Paese per pianificarne l’uso, applicazione di tecnologie diverse a misura delle esigenze locali. Tecnici e politici devono concentrarsi a lavorare insieme sull’acqua, coscienti che è il primo problema da risolvere: senza acqua non ci saranno più energia, agricoltura, alimentazione. Non ci sarà più vita.

 

Jean-François Donzier, segretario generale della Rete internazionale degli Organismi di Bacino, ritiene che l’obiettivo 6 non sarà raggiunto entro il 2030. Essendo però la condizione per raggiungere gli altri, cosa sarà dell’ambiziosa Agenda 2030? E i cambiamenti climatici? L’acqua sarà una delle prime vittime nei prossimi anni: le inondazioni saranno più frequenti e più violente e aumenteranno i conflitti per l’accesso all’acqua. Sapremo risolvere questi problemi? In realtà le soluzioni ci sono, ma bisogna usarle: il cambio di paradigma dipende dalle scelte politiche che non ha senso fare da soli. L’acqua scorre, non ha frontiere come quelle che stabilisce la politica – ci sono molti fiumi, laghi e bacini transfrontalieri – quindi è logico pensare a organizzazioni sovranazionali per gestire problemi e risorse comuni: bisogna ragionare in termini di solidarietà di bacino, di gestione integrata, di lotta all’inquinamento e ai disastri naturali. Bisogna fare monitoraggio e prevenzione e tenere conto di tutti quelli che usano l’acqua e di come la usano, servono una visione intersettoriale e una gestione integrata non solo delle acque di superficie. Come fare le scelte politiche giuste? L’informazione è condizione imprescindibile per una giusta governance, ma per trovare le soluzioni è indispensabile il dialogo, spiegare perché si prendono le decisioni, fissare obiettivi comuni a 20-30 anni e così pianificare le azioni necessarie, confrontarsi non per fare un “copia e incolla” delle scelte altrui, ma per incastrare le tessere di un puzzle di cui tutti siamo parte. A questo punto è normale chiedersi chi paga: sono sicuramente politiche che costano, ma con un quadro giuridico chiaro si deve stabilire il principio che chi più inquina più paga, e che le attività più redditizie devono pagare di più l’uso dell’acqua. C’è la volontà politica di passare dalla teoria alla pratica? Dovrebbe esserci, perché la buona gestione è redditizia.

 

Pubblico o privato? In un dibattito tuttora irrisolto, Frédéric Van Heems porta il caso di Veolia Eau France, un’azienda privata che gestisce servizi idrici di cui è amministratore delegato. Stante il fatto che i più poveri pagano cara la mancanza di acqua in termini di salute e che il problema è destinato a esplodere, la prima esortazione è al risparmio e alla gestione razionale della risorsa acqua, in primo luogo in agricoltura – dove razionalizzarne l’impiego porterebbe enormi risparmi – e nelle aziende, poi riutilizzando le acque reflue (in Israele è il 10%). Smettiamo di strumentalizzare l’acqua a fini politici, non è un delitto privatizzare la gestione dell’acqua, a patto che le reti e la determinazione del prezzo restino pubblici (l’acqua deve essere pagata il giusto prezzo, non solo in forma di tassa, ma a consumo); una governance trasparente genera la fiducia dei consumatori e fa emergere il ruolo e la responsabilità sociale di imprese private che possono servire un bene pubblico; sosteniamo l’innovazione tecnica e digitale, creiamo reti di innovazione sociale anche con le ong. Ma soprattutto usciamo dalla guerra ideologica pubblico-privato: l’acqua è lo specchio della nostra capacità di agire al servizio del bene comune, e dall’alleanza pubblico-privato può generarsi un corpo sociale con un forte senso etico.