Rinnovabili

Allevamento e ambiente, la strada per abbattere le emissioni è tracciata

L’allevamento può aiutare l’ambiente?

Parlare di allevamento al di là dei pregiudizi. E poi ricerca, agricoltura, ambiente: temi chiave per l’economia italiana con importanti risvolti anche per la sostenibilità sociale.

Abbiamo intervistato Alberto Cortesi, presidente di Confagricoltura Mantova, dopo la conferenza “La forza dei territori nella transizione”, uno dei numerosi eventi che hanno costellato il Seminario Estivo della Fondazione Symbola, organizzato da Ermete Realacci.

Nel suo intervento, Cortesi ha messo l’accento sulla buona agricoltura, che genera un’economia sana anche dal punto di vista ambientale, e sulla necessità di risvegliare l’interesse dei giovani, i più pronti e motivati ad accogliere l’innovazione e la tecnologia.

Ma soprattutto se non si dà la possibilità alla ricerca di lavorare, non avremo le condizioni per raggiungere gli obiettivi ambientali europei e rischiamo seriamente di trovarci fuori dal mercato.

Nel corso della conferenza su “La forza dei territori nella transizione” ha fatto un accenno all’economia agricola che fa bene all’ambiente. Di solito si parla di agricoltura come grande inquinatrice.

Di solito si utilizzano dati non veritieri. Se guardiamo i dati dell’ISPRA (Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale) relativi alla situazione italiana parliamo di dati sotto il 10%.

Si deve considerare che l’allevamento ha una quota importante, ma il discorso del metano va preso a parte perché non deriva da fossili e dura comunque in atmosfera almeno dieci volte meno rispetto ad altri gas climalteranti.

Legata i bovini c’è la produzione dei foraggi, che permette un assorbimento di CO2. Quindi è una compensazione, un calcolo molto complesso.

Tra l’altro l’Unione Europea solo quest’anno, con un po’ di ritardo, ha emanato le linee guida per come fare questi conteggi, altrimenti è un elastico che tutti si tirano a proprio favore.

Su questo contiamo molto: l’attività agricola è un’attività che si rinnova, in alcuni settori ha la capacità di assorbimento maggiore delle emissioni di CO2, motivo per cui parliamo di crediti di carbonio.

Dobbiamo usare dati scientifici, altrimenti si raccontano inesattezze.

La stessa zootecnia ha un valore per il territorio, perché gli animali al pascolo fanno un “lavoro” per l’ambiente.

È proprio così, infatti il discorso va contestualizzato. Io faccio l’allevatore di vacche da latte. Se prendo i dati delle emissioni del mio allevamento intensivo di pianura, rispetto al litro di latte che produciamo siamo molto meno impattanti per esempio di un piccolo allevamento dell’Alto Adige.

Ma non è questo il raffronto che possiamo fare in quel contesto: lì non è tanto l’impatto per litro di latte, quanto il ruolo sociale dell’allevatore di montagna che ha un valore per il mantenimento del territorio.

Quello che voglio dire è che tutto va contestualizzato. Sono in pianura, devo confrontarmi con certi conteggi, ho un impianto di biogas per i reflui zootecnici per ridurre l’impatto che è anche un’attività economica. Senza questa contestualizzazione finiamo per banalizzare e raccontare sciocchezze.

Se prendessimo soltanto l’impatto dell’allevamento al pascolo, vedremmo che ha un impatto maggiore dell’allevamento in stalla, ma in alcune aree si deve fare allevamento al pascolo; ha un senso perché c’è un motivo ecologico.

Per rimanere nel perimetro dell’agricoltura, nella provincia di Mantova si fanno progetti di agricoltura sostenibile? Infatti si parla molto del fatto che Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna siano le zone più inquinate d’Italia.

Per certi aspetti i problemi esistono, dovuti anche alla scarsa ventilazione della pianura per cui, ad esempio, Cremona e Mantova hanno grossi problemi di polveri sottili. Questo è un problema a cui l’allevamento dà un contributo importante.

D’altro canto in questi anni l’allevamento sta facendo passi da gigante per ridurre quelle emissioni di ammoniaca che si legano con le polveri sottili. Da un punto di vista tecnico, l’ammoniaca si può ridurre tantissimo con sistemi di spandimento adeguati.

In questi ultimi anni è stato fatta una rivoluzione: la strada è tracciata. Non tutti gli allevatori si sono adeguati ma dovranno farlo. Io sono il primo a dire, come rappresentante degli allevatori, che devono adeguarsi.

Servono sistemi di spandimento adeguati, le coperture delle vasche, sistemi di sub-miscelazione, i sistemi di allevamento vanno adeguati da questo punto di vista. Abbiamo la fortuna che la tecnica ci dà un grande aiuto per ridurre in modo sostanziale le emissioni.

È tutto molto molto complesso: semplificare o banalizzare rischia di far dire cose inesatte. Come agricoltura avanzata – e Mantova è un’agricoltura avanzata – ci stiamo ponendo i problemi e stiamo scegliendo le soluzioni tecniche adeguate. Non ci stiamo girando intorno, li conosciamo e cerchiamo di affrontarli.

Un produttore di latte mi disse “puoi lasciare un campo a riposo, ma se ci lavori un po’ lo recuperi, mentre se chiude una stalla, chiude per sempre”.

È proprio così. Anche il risvolto sociale dell’insediamento nel territorio è determinante. Cerchiamo di far combaciare la sostenibilità economica – le aziende devono guadagnare per guardare al futuro utilizzando le migliori tecniche – con l’opportunità data dai prodotti tipici come le nostre Dop, il Grana Padano, il Parmigiano, il prosciutto. Dobbiamo far coesistere questi obiettivi per guardare al futuro.

Oggi le prospettive ci sono. Ad esempio, il Grana Padano sta vivendo un momento storico particolarmente favorevole, è apprezzatissimo sui mercati mondiali ed è un’opportunità economica per tutta la filiera.

Come allevatori dobbiamo fare nostra parte per far coesistere queste opportunità con gli aspetti ambientali.

Secondo lei è realistico rientrare nei parametri europei? A volte sono talmente rigidi che sembra che non ci sia il tempo sufficiente per raggiungerli e realizzare un cambiamento.

Questa è una grande sfida, soprattutto quando gli obiettivi sono più frutto di slogan che non di scelte ragionate e quindi possibili. Quando si lancia lo slogan di Farm to Fork con -50% di fitofarmaci è un numero.

Ripeto ancora una volta che tutto va contestualizzato in base alle colture, alla condizione pedoclimatica. Potrebbe essere ampiamente superato come pure inarrivabile perché non ci sono le condizioni, ma talvolta le condizioni vanno ricercate.

Ho fatto l’esempio del riso. Se non si dà la possibilità alla ricerca di lavorare, non avremo le condizioni per raggiungere questi obiettivi. E se non le abbiamo significa che per raggiungere gli obiettivi dobbiamo diminuire la produzione o comunque far sì che le nostre aziende non guadagnino più. Sostanzialmente si va verso un fallimento del sistema.

Come Confagricoltura promuoviamo il Food and Science Festival. Quest’anno la responsabile europea delle TEA (Tecniche di Evoluzione Assistita) ci ha fatto vedere cosa sta succedendo nel mondo. In Cina stanno sperimentando in pieno campo almeno 500 varietà migliorate geneticamente, diverse decine in Spagna, etc.

In Italia oggi abbiamo in pieno campo una sola varietà di riso. I nostri ricercatori sono apprezzati in tutto il mondo, i laboratori delle università sono decisamente avanzati ma dobbiamo tenere i progetti di ricerca chiusi nei laboratori. È un handicap non solo per l’agricoltura, ma per la ricerca in generale e va superato immediatamente perché altrimenti perdiamo il treno.

Ci troveremo derrate alimentari prodotte in altri paesi con queste tecniche che sono indistinguibili da analoghi prodotti “tradizionali”: anche facendo esami di laboratorio non troveremo differenze nel DNA perché si tratta di variazioni che possono avvenire anche in natura. Questi saranno competitivi, porteranno le merci in Italia e noi saremo fuori mercato.

Il paradosso è che dobbiamo produrre meno e con regole ferree – che per certi versi è anche giusto – e poi siamo costretti a comprare prodotti alimentari da mercati esteri che non hanno le nostre stesse regole, o forse non ne hanno affatto. Come si può quadrare questo cerchio?

L’Italia è nel complesso il settimo esportatore al mondo, di cui l’agroalimentare rappresenta il 10% ed è in continuo aumento.

Se però andiamo a vedere, il valore delle produzioni è in calo. Questo significa che siamo degli ottimi trasformatori, ma spesso di materie prime che vengono dall’estero.

Abbiamo visto anche altri settori che hanno ridotto molto la produzione di materie prime quanto siano andati in crisi per motivi diversi (ad esempio di tipo geopolitico o energetico).

Quindi la sollecitazione che facciamo a tutti i politici è che l’Italia non può permettersi di ridurre le produzioni agricole perché l’agroalimentare ce lo richiede, perché sono un’opportunità economica e perché un domani qualcuno potrebbe dire che il nostro è un agroalimentare fasullo e non possiamo permettercelo.

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