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USA, via libera alla carne di pollo coltivata in laboratorio

Gli USA hanno dato il via libera alla commercializzazione della carne di pollo coltivata in laboratorio. Tra sostenitori e detrattori, rimane fermo il punto dell’insostenibilità economica. In Italia le posizioni sono complessivamente negative, ma fermare la ricerca sarebbe un errore. Un ruolo cruciale spetta alla corretta informazione, che può aiutare i consumatori nella scelta

Foto di Artem Beliaikin su Unsplash

di Isabella Ceccarini

La carne di pollo coltivata in laboratorio ha ottenuto il via libera alla commercializzazione dal Dipartimento dell’Agricoltura degli Stati Uniti (USDA, United States Department of Agriculture). Da ora in avanti sarà disponibile in supermercati e ristoranti.

Gli Stati Uniti sono uno dei paesi in cui si consuma più carne, poiché è parte della dieta tradizionale degli americani.

Se facciamo riferimento all’Italia o all’UE, dove il consumo di carne è in calo, forse l’immissione sul mercato di quella coltivata non cambierebbe in modo sensibile l’impatto sull’ambiente.

Viceversa, in altre parti del mondo – oltre agli USA, la Cina e l’India, dove la richiesta è in crescita – il consumo di massa della carne coltivata in laboratorio potrebbe incidere in modo rilevante sull’impronta ambientale.

Come nasce la carne coltivata in laboratorio

Come spiegano i ricercatori, non è corretto definirla carne sintetica perché non ci sono ingredienti estranei. È una carne coltivata in laboratorio a partire da un prelievo di cellule staminali dell’animale (ma la FAO la definisce a base cellulare) che crescono e si moltiplicano a temperatura controllata in un liquido nutritivo calibrato grazie a un mix di amminoacidi, carboidrati e micronutrienti.

Il sistema incontra il favore degli animalisti, perché non si uccidono gli animali. Sul fronte della sicurezza, i produttori garantiscono l’assenza di ormoni e antibiotici.

Alla stampante 3D spetta il compito di dare al composto la forma desiderata (hamburger, bocconcini o altro), ad alcuni additivi quello di dare il colore e il sapore. Dal punto di vista dell’equilibrio nutrizionale, c’è un eccesso di grasso, ma ci si sta lavorando.

Chi l’ha assaggiata ha trovato odore, sapore e aspetto simili a quelli del pollo, ma si deve abbandonare l’immagine dell’animale a cui siamo abituati. Quello che mettiamo nel piatto è pura tecnologia.

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Il vero problema è l’insostenibilità economica

Le aziende che hanno avuto l’approvazione della Food Safety Agency (l’agenzia a cui fanno capo tutti gli enti di controllo per la sicurezza alimentare e dei farmaci) sono Upside Foods e Good Meat.

Eat Just (azienda da cui è nata Good Meat) aveva penetrato il mercato di Singapore già nel 2020 ma con numeri irrisori rispetto alle vendite di carne di pollo “tradizionale”; lì si era evidenziato il vero problema della carne coltivata, l’insostenibilità economica.

Quindi è una pietanza riservata ai consumatori privilegiati? Probabilmente sì, infatti chef stellati come Dominique Crenn e José Andres (entrambi attenti alla sostenibilità ambientale e alimentare) si sono dimostrati favorevoli all’adozione della carne coltivata nei menù dei loro ristoranti.

Un grande business

Anche in questo settore, i grandi volumi produttivi garantiscono la possibilità di rientrare nei costi, quindi perché il business decolli davvero ci vuole tempo. Bisogna convincere le persone a mangiare la carne coltivata in laboratorio e abbandonare quella tradizionale.

Poiché di business si tratta, è legittimo pensare che la campagna a favore della carne coltivata in laboratorio sia orchestrata dalle multinazionali che vi hanno investito cifre considerevoli?

Qual è il vantaggio ambientale? Gli allevamenti tradizionali sono i principali imputati dell’inquinamento, mentre con la carne coltivata c’è meno consumo di acqua, minore emissione di gas serra, meno produzione di fosfati. Tuttavia i bioreattori necessari alla produzione della carne hanno forti consumi energetici.

E in Italia?

In Italia le associazioni di agricoltori e il Ministero dell’Agricoltura dicono un no assoluto alla carne coltivata per tutelare la tradizione e le imprese dell’agroalimentare italiano, oltre alla salute (ma i cibi iper processati che entrano quotidianamente nelle nostre diete sono forse salutari?).

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Slow Food (di cui è disponibile un interessante studio in proposito) ritiene che la deriva tecnologica privi il cibo del suo significato culturale e del legame con i territori e le comunità.

Secondo un’indagine di Coldiretti, l’84% degli italiani è contrario alla carne coltivata, probabilmente perché c’è sempre un margine di diffidenza nei confronti del nuovo.

Di fronte a posizioni fortemente contrapposte, per i consumatori non è facile capire dove sia la ragione. La riflessione quindi deve essere ampia, al di là degli inevitabili pregiudizi, e deve allargarsi alla ricerca.

Nel mondo oltre 150 aziende stanno testando la produzione di carne coltivata in laboratorio. In Europa l’EFSA (l’Autorità Europea per la Sicurezza Alimentare) sta effettuando studi per valutare gli eventuali rischi per la sicurezza derivanti dal suo consumo. Se ci fosse il via libera anche nell’UE, l’Italia si troverebbe nella paradossale posizione di dover commercializzare qualcosa che non può produrre.

È importante continuare la ricerca: non si può rimanere fermi mentre tutto cambia. Ovvio che le persone debbano essere informate in modo corretto e messe in condizione di scegliere, e ci sembra francamente improbabile che tutti scelgano di optare per la carne coltivata.