Rinnovabili • Rinnovabili •

Un kit rintraccia le tossine nel latte

Messo a punto un kit economico ed efficace che permette di rilevare presenza dell’aflatossina M1 nel latte crudo. Questa sostanza, considerata cancerogena per l’uomo, non si vede a occhio nudo, non ha sapore ed ha un’elevata stabilità durante i trattamenti termici come la pastorizzazione del latte

Image by congerdesign from Pixabay

(Rinnovabili.it) – ENEA ha messo a punto un kit diagnostico per aziende lattiero-casearie e laboratori di analisi in grado di rilevare la presenza dell’aflatossina M1 nel latte crudo in modo rapido, efficace e a basso costo.

Le aflatossine sono micotossine prodotte da funghi appartenenti al genere degli aspergilli che si sviluppano di solito quando le derrate alimentari sono conservate a temperature tra i 25 e i 32°C e con tassi di umidità dell’ambiente di oltre l’80%.

Tossine invisibili e insapori che resistono alla pastorizzazione

Non si vedono a occhio nudo, non hanno sapore e, soprattutto, mostrano un’elevata stabilità durante i trattamenti termici come, ad esempio, la pastorizzazione del latte.

L’aflatossina M1, una sostanza considerata cancerogena per l’uomo, proviene da animali nutriti con mangimi contaminati. La ricerca è stata realizzata in collaborazione con l’Università di Torino; i risultati sono stati pubblicati sulla rivista scientifica Toxins.

Considerati gli effetti dannosi dell’aflatossina M1 sulla salute umana e animale, l’Unione Europea ha fissato una concentrazione massima di 50 nanogrammi/litro (50 ppt) nel latte crudo, nel latte trattato termicamente e in quello destinato alla produzione di formaggi. Ha ulteriormente abbassato questo valore soglia negli alimenti destinati ai neonati e ai bambini (25 ng/l), che sono tra i maggiori consumatori di latte.

leggi anche Dall’imballaggio al cibo: i Pfas fluorotelomeri possono contaminare quello che mangiamo

Analisi con gli anticorpi monoclonali

La tecnica di analisi messa a punto dai ricercatori ENEA prevede, per la prima volta, l’impiego di anticorpi monoclonali prodotti da una pianta dello stesso genere del tabacco (Nicotiana benthamiana), per “intercettare” le tossine presenti nel latte anche a concentrazioni molto basse.

Infatti le sperimentazioni sono state condotte su campioni di latte crudo contenenti diverse concentrazioni di aflatossina M1 (25, 50 e 75 nanogrammi/L), molto inferiori ai limiti fissati per legge.

«Si tratta della versione green di ELISA, uno dei migliori e più diffusi metodi di screening rapido per il rilevamento delle tossine negli alimenti e nei mangimi animali, che permette l’analisi accurata, rapida e a basso costo di un numero elevato di campioni», spiega Marcello Catellani del Laboratorio ENEA di Bioprodotti e bioprocessi.

Costi ridotti al minimo

I ricercatori hanno prodotto gli anticorpi con il Plant Molecular Farming (PMF), un sistema che usa le piante per produrre molecole complesse come gli anticorpi. Il PMF permette di operare in condizioni non sterili (serra, acqua, luce, suolo) con costi ridotti al minimo.

Spiega Catellani che «si tratta di un approccio biotecnologico che può liberare la produzione di anticorpi dai classici e più costosi sistemi basati su colture di cellule animali, che richiedono strutture e ambienti dedicati, reagenti e strumenti specifici per la loro crescita in condizioni di sterilità, come ad esempio bioreattori e incubatori».

Risultati rapidi

Per questo lavoro è stata utilizzata la tecnica dell’agroinfiltrazione che comporta l’utilizzo di un particolare batterio chiamato Agrobacterium tumefaciens che veicola l’informazione genetica di interesse nei tessuti vegetali della pianta Nicotiana benthamiana.

«Questo processo risulta vantaggioso per rapidità e resa: richiede solo 1-2 giorni per la crescita degli agrobatteri, che hanno il compito di veicolare l’informazione genetica nella pianta, e dopo circa una settimana è possibile raccogliere le foglie da cui estrarre fino a 1,6 g/kg di anticorpi.

Quindi, lo scale-up di questa produzione è immediato, facilmente modulabile e poco costoso, se confrontato con colture cellulari in vitro, perché richiede semplicemente un ampliamento dello spazio di coltivazione dedicato alle piante», sottolinea Cristina Capodicasa del Laboratorio ENEA di Biotecnologie.